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L’eterna minorenne - Capitolo XXXI

L’atteggiarnento realmente razzista del fascismo nei riguardi della donna veniva completato dalla legislazione che non solo non fece un passo avanti in tema di diritto di famiglia, ma ne fece qualcuno indietro. L'uomo era capo indiscusso della famiglia e la donna doveva seguirlo (come un cagnolino) dovunque egli decidesse di fissare la sua dimora; aveva sui figli la "patria potestà", per cui spettava a lui ogni decisione, anche se era separato dalla moglie e i figli vivevano con la madre.

Non solo, egli poteva far valere la sua volontà persino dopo morto, attraverso le disposizioni testamentarie, mentre la donna, anche se sposata o vedova, era considerata un'eterna minorenne. Fra l'altro, doveva al marito eterna fedeltà, anche in caso di separazione (il divorzio naturalmente allora non esisteva) e il suo adulterio persino solo apparente era punito con la reclusione fino a due anni; mentre il marito era libero di tradirla come e quando voleva, perché nessuna punizione era prevista, a meno che non vivesse in aperto concubinato. Sul piano economico tutti i beni appartenevano al marito, e in caso di morte li ereditavano i figli, mentre alla moglie spettava solo l'usufrutto.
Tutte queste norme il codice fascista le aveva riprese dal precedente, che risaliva al 1865, lasciandole più o meno immutate, senza tener conto del progresso che aveva caratterizzato in tutto il mondo l'istituto familiare. Ma in campo penale si arricchì addirittura di un nuovo articolo, per stabilire che chiunque uccida la moglie, o la figlia, o la sorella per difendere "l'onor suo o della famiglia" ha diritto alla riduzione di un terzo della pena. Era l’articolo 587 sul cosiddetto delitto d'onore abrogato non molti anni dopo. Esso riconosceva all'uomo - e solo a lui - la possibilità di "farsi giustizia" da solo, se scopriva una donna della sua famiglia in fiagrante delitto "d'amore". Infatti l'onore del maschio, secondo la concezione del fascista, non era che il rovescio della medaglia di un atto d'amore compiuto dalla donna al di fuori del matrimonio.
Proprio in quegli anni le "camicie nere", cantando "Faccetta nera" andarono a conquistare l'Etiopia, con il pretesto di liberarla dalla schiavitù. Non sarebbe stato meglio - si chiedevano le femministe - liberare quelle piccole schiave domestiche che erano le donne italiane?
Queste, allora, erano "inquadrate" nelle organizzazioni fasciste, e quando si recavano alle adunate dovevano vestirsi in divisa. Le bambine erano "piccole italiane" e indossavano una gonna nera a pieghe con una camicetta bianca, una mantellina nera sopra, e in testa avevano uno strano zucchetto nero di maglina di seta, che era la loro disperazione perché le rendeva bruttissime. Le ragazze si chiamavano "giovani italiane", e invece dell'esecrato zucchetto avevano un basco nero che alcune portavano "a schiaffo", tutto da una parte calato sull'occhio, e altre dritto sulla nuca e tenuto fermo da uno spillone; poi, sulla camicetta, avevano una cravatta nera che arrivava sino alla cintura. Le signore erano "donne fasciste" e la loro divisa consisteva in gonna e sahariana nere, ma erano pochissime quelle che la indossavano: le uniche, forse, erano le insegnanti perché vi erano obbligate, e fra loro venivano scelte anche le "gerarche". Le contadine erano invece "massaie rurali", e si limitavano a portare, come segno di appartenenza all'organizzazione, un fazzoletto in testa.
Per chi studiava o lavorava, la tessera del PNF (Partito Nazionale Fascista) era obbligatoria, quindi non si saprà mai quanti fossero realmente i fascisti, uomini o donne, e quanti si ritrovassero iscritti perché era impossibile fare diversamente. Ad esempio, a scuola la tessera si pagava insieme alla pagella, e non veniva neanche in mente di poterla rifiutare; d'altra parte se qualcuno lo faceva, veniva considerato un antifascista, nemico del regime, e punito alla prima occasione. La stessa partecipazione alle adunate "oceaniche", come venivano definite dai giornali quelle che si tenevano in occasione dei discorsi del "Duce", o a quelle meno oceaniche che si svolgevano ogni sabato, non voleva affatto dire adesione al fascismo, perché andarci era obbligatorio e chi se ne asteneva ripetutamente passava dei guai.
Comunque a parte le adunate, in cui si restava per delle ore in piedi senza far nulla, quel lugubre esercito femminile era del tutto inattivo, e non meno dal punto di vista culturale. Mentre in quasi tutti gli altri paesi le donne ormai avevano ottenuto il voto e partecipavano in qualche misura alla vita politica e sociale, in Italia il voto era stato tolto anche agli uomini, e parlare di femminismo o di emancipazione femminile era considerato indice di antifascismo. Le lotte condotte dalle suffragette, quando non erano ignorate del tutto venivano distorte e ridicolizzate, tanto che ancora oggi quel termine di origine anglosassone è usato in senso spregiativo, mentre meriterebbe il più grande rispetto.
Il "modello" femminile proposto dal fascismo era molto ambiguo: da una parte si faceva molta retorica sull' "eroica donna romana", tipo Cornelia madre dei Gracchi o la giovane Clelia, che attraversò il Tevere a nuoto dopo aver pugnalato il nemico; dall'altra si additava ad esempio la madre prolifica, perfetta casalinga e suddita dell'uomo, come farneticava il teorico Loffredo. Quindi non ci fu un vero modello culturale, una ideale figura di riferimento a cui le donne nate o cresciute durante il fascismo potessero guardare. Ed esse crebbero in una specie di isolamento, ignorando tutto delle loro coetanee di altri paesi, tranne quel pochissimo che la propaganda fascista lasciava passare.

L'avventurosa storia del femminismo di Gabriella Parca
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. - Milano - Prima edizione Collana Aperta maggio 1976
Seconda Edizione Oscar Mondadori marzo 1981
Copyright by Gabriella Parca - Terza Edizione - www.cpdonna.it 2005