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Metafore di comunicazione: il linguaggio degli occhi

di: Nadia Cilia

Gli occhi costituiscono uno dei più importanti mezzi di comunicazione: possono esprimere amore, odio, gelosia, curiosità, paura; persino meglio delle parole.
Mi rendo conto, purtroppo, che nelle grandi città come Milano, il non guardare costituisce spesso una difesa: “Gli abitanti delle grandi città imparano alla svelta che non si deve guardare”.

Mai stabilire un contatto visivo con uno che ti chiede l’elemosina o che ti vuole vendere fiori o qualcos’altro, altrimenti “non te lo scolli più” fino a quando non gli dai qualcosa; ( tipico es. del ns. quotidiano la lotta ai lavavetri); evita lo sguardo di un estraneo in difficoltà, altrimenti ti puoi sentire obbligato ad aiutarlo; non guardare uno che ti fissa altrimenti potresti mettere in pericolo la tua vita etc etc... E così, a poco a poco, ci si abitua a non guardare, a nascondere lo sguardo; complice una comunicazione virtuale (anche se questo non è l’ambito in cui parlarne) che certamente non aiuta.

Al contrario di ciò voglio spezzare una lancia a favore dello sguardo e del guardare, del linguaggio degli occhi.

Naturalmente esistono forme di contatto visivo più piacevoli; Ovidio, esperto nell’arte della seduzione consiglia agli innamorati: “Fa’ che i tuoi occhi penetrino nei suoi e che il tuo sguardo sia una dichiarazione, poiché spesso il muto sguardo convince più delle parole”.

Innumerevoli ed estremamente differenziati sono gli strumenti del comunicare ed il linguaggio ne costituisce senza dubbio il veicolo per eccellenza, diventando, a volte, uno strumento di comunicazione fin troppo raffinato.

Quante volte, i miei pazienti, hanno tentato con difficoltà di dirmi e comunicarmi verbalmente sensazioni, immagini, idee e nel contempo li ho visti restare delusi dalle difficoltà e a volte, dall’incapacità di esprimere “a parole” quello che va “al di là della parola”.

In queste situazioni ho attivato canali comunicativi di accoglimento e comprensione paralleli a quello verbale. Di fatto la parola è lo strumento principale di trasmissione del pensiero, ma lo sguardo è un mezzo di comunicazione altrettanto importante e di cui abbiamo minor consapevolezza.

La parola costituisce solo il 20% di ogni comunicazione, il resto è dato da segnali non verbali.

C’è tutto un linguaggio degli occhi altamente significativo ed estremamente differenziato: gli occhi possono ammiccare, scrutare, contemplare, squadrare, spiare, alludere, ammirare, lusingare, disprezzare, possono accogliere e rifiutare, comunicare l’intera gamma delle emozioni.

Questa forma di comunicazione assume certamente una maggior importanza, se vi è stato un difetto precoce nella relazione madre-bambino nei primi stadi dello sviluppo emozionale.

In “Gioco e realtà” Winnicott descrive la funzione di specchio del volto della madre nello sviluppo emozionale del bambino, sottolineando l’importanza di vedersi riflesso in quel volto: “Quando guarda il volto della madre il lattante vede sé stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è ciò che essa scorge”.

Se questa funzione di specchio non si realizza ed il volto e gli occhi della madre riflettono : “…il proprio stato d’animo o, ancor peggio, la rigidità della proprie difese“, il bambino guarderà senza vedersi.

Nel processo di crescita e di maturazione, l’interscambio di sguardi nella relazione madre-bambino assume quindi un ruolo importante di stimolo nella strutturazione del mondo interno del neonato e nella definizione dei propri confini come persona. Mi riferisco in questo senso all’occhio della madre come occhio che comunica, occhio amorevole, occhio seduttivo, ma anche occhio severo, occhio che controlla, occhio del Super-Io che favorisce nel bambino il processo di “separazione-individuazione” fase che segue quella simbiotica e che comporta per il bambino l’abbandono del vissuto illusorio del primo rapporto con il mondo e, a poco a poco, il riconoscimento di sé e dell’altro.

Durante la mia esperienza professionale ho avuto modo di constatare che l’occhio e lo sguardo, come metafore di comunicazione o come simboli, sono dimensioni piuttosto importanti nel contesto della relazione analitica. Mi riferisco alle molteplicità di riferimenti all’occhio e allo sguardo emersi in sogni, vissuti, sintomi e problematiche relazionali portati dai pazienti.

Difatti l’occhio è lo specchio dell’anima : “E’ simile a un occhio e a uno sguardo dell’anima attraverso il quale ci viene indicato l’affetto e l’intento dell’anima”.

Gli occhi rappresentano quindi un’area di frontiera tra modo interno e mondo esterno; potrei azzardare che, in fondo, l’occhio attraverso lo sguardo esprime: “Una corporeità del pensiero e del sentimento insieme”.

Un paziente, anni fa, si era rivolto a me per un grave problema di relazione con le donne, difficoltà a portare avanti una relazione sentimentale adulta. Da parecchi anni aveva una ragazza con la quale aveva impostato un rapporto direi da adolescenti. Mantenevano separati i propri spazi, le proprie amicizie, le proprie vacanze che spesso il mio paziente trascorreva scorrazzando in moto con gli amici per l’Italia.

Il loro rapporto di coppia si riduceva a qualche breve vacanza e da rapporti sessuali sporadici e prevalentemente di petting; i primi rapporti sessuali, altamente idealizzati, erano stati vissuti dal paziente con un sentimento di frustrazione tale che non avevano più riprovato.

Uomo di 30 anni, allegro solare e di bell’aspetto, mi aveva comunicato il problema con un apparente serenità, una gestualità quasi salottiera e grandi sorrisi. Ai primi colloqui mi aveva colpito il suo viso rilassato che, a tratti, nascondeva una certa ambiguità mascherata dall’ironia. Molto disinvolto, loquace e simpatico mi aveva descritto una famiglia quasi invidiabile. Queste sedute salottiere mi disturbavano profondamente, sentivo che faceva nella terapia e con me quello che faceva con le donne, si manteneva costantemente in superficie, avvicinandosi al problema (venendo in terapia) senza affrontarlo. Inutili erano stati i tentativi di interpretargli questi tratti narcisistici e questa sua totale negazione dell’aggressività. Il mio sentimento di impotenza, rispetto a questa sua sorridente barriera narcisistica, rispecchiava il sentimento di impotenza che doveva provare lui stesso rispetto a questa sua barriera.

“Il carattere narcisistico rifiuta la sensazione di avere bisogno di un altro essere umano, perché vivere l’esperienza di tali bisogni può scatenargli rabbia e invidia che potrebbero travolgere la debole struttura dell’Io.

Un giorno, durante una delle sue sedute salottiere, decisi di comunicargli che traspariva dagli occhi una sua parte oscura e inquietante, quasi mai solare, e che il suo sguardo trasmetteva un sentimento di profondità e di tristezza. Fu una seduta molto intensa, il paziente mi disse che avevo colto nel suo sguardo la sua vera natura e che solo qui, con me, si era sentito capito senza essere ferito. attraverso quello sguardo ero entrata in sintonia con il suo sentimento profondo e questo aveva aperto l’accesso al suo mondo interiore. L’immediata risposta positiva, a mio parere, deriva dal rispecchiamento dello sguardo del paziente come canale di comunicazione della sua vita affettiva-emotiva, quella vita che specularmene alla legge familiare, doveva essere negata dalle parole e dalla mimica del volto.

Essere rispecchiati: “è essere compresi, sentire che qualcuno è empaticamente in sintonia con i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre esperienze. Rispecchiare un'altra persona richiede la disponibilità a entrare nel suo mondo, a sospendere il giudizio critico e a riflettere su ciò che è stato offerto”.

Questa comunicazione avviò finalmente una relazione di maggior empatia e, da parte del paziente, una maggior conoscenza di sé:

“Si era aperto finalmente un occhio della mente, la comunicazione del suo sguardo ci aveva permesso l’accesso a una sua parte inconscia che il paziente nascondeva a sé stesso e agli altri, avendo un immagine di sé solo come solare.”

In definitiva l’occhio e lo sguardo, come metafore di comunicazione, conducono all’importanza di una semantica corporea, come chiave d’accesso a quel mondo interiore che la comunicazione verbale difficilmente esprime.