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Previdenza: evoluzione di un concetto giuridico e sociale

Dott.ssa Carmen Craca - Legale

La tutela previdenziale in Italia nasce poco prima del periodo corporativo come strumento di protezione connesso al rapporto di lavoro e destinato a realizzare un vincolo di solidarietà tra i datori di lavoro e i lavoratori.
Il momento genetico è quello della emanazione della legge n. 80 del 17 marzo 1898, che rese obbligatoria per i datori di lavoro l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.
Lo strumento, governato dal principio di corrispettività tra contributi versati e prestazioni erogate, era modellato sul contratto dell’assicurazione privata, ed era dotato di estrema flessibilità, flessibilità che ne ha segnato la nascita, e ne ha accompagnato lo sviluppo, attraverso i radicali cambiamenti storici, economici e sociali.
La scelta dello strumento assicurativo era giustificata da una serie di motivazioni, quali l’affinità con il precedente storico rappresentato dalle società di mutuo soccorso, la maggiore economicità rispetto alle forme di tutela a carico dell’erario, la flessibilità e la potenzialità selettiva dello strumento assicurativo, la maggiore compatibilità con l’ideologia liberale del periodo storico.
Nello stesso periodo di tempo, venne istituita la Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai (l. 17 luglio 1898 n. 350), la quale gettò le basi di una più ampia solidarietà tra lavoratori e al finanziamento della quale saranno chiamati a partecipare anche i datori di lavoro (d.lgs. 21 aprile 1919, n. 603).
Emerge immediatamente il carattere pubblicistico della tutela previdenziale, nel senso che la sua piena attuazione ancorché imposta dalla legge è condizionata dall’adempimento degli obblighi posti a carico del datore di lavoro.
Lo Stato si limita a dar vita ai nuovi istituti, a dettare con legge la disciplina dei rapporti, mentre il compito di realizzare la tutela previdenziale resta assegnato agli stessi interessati.
Il fine pubblico a fondamento delle assicurazioni sociali ha ad oggetto il mantenimento dell’ordine pubblico.
Invero, i concetti dell’assistenza sociale e della previdenza sociale sono nati con la stessa motivazione politica, il mantenimento dell’ordine costituito, nel timore che l’indigenza potesse indurre a ribellarsi a tale ordine costituito.
In tale prospettiva, è agevole comprendere come la previdenza sociale dei lavoratori subordinati abbia avuto uno sviluppo più intenso dell’assistenza sociale, dovuto al sorgere di una coscienza di classe e per la preoccupazione di diminuire la tensione determinata dai nuovi rapporti sociali.
Un notevole passo avanti avviene nell’immediato dopoguerra, con l’affermazione del principio di sicurezza sociale, che esprime l’esigenza che venga garantita a tutti i cittadini la libertà dal bisogno, in quanto ritenuta condizione indispensabile per l’effettivo godimento dei diritti civili e politici.
Questa libertà, garantita dallo Stato, diviene un fine da perseguire a mezzo della solidarietà generale.
L’idea della sicurezza sociale è stata ampiamente accolta dal nostro ordinamento.
Una importanza determinante deve essere attribuita al principio secondo il quale è compito dello stato rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, II co., Cost.).
Si tratta della liberazione dal bisogno quale interesse generale della collettività.
La libertà dal bisogno non può essere realizzata dai singoli che pure ne sono titolari ma deve essere garantita dallo Stato.
Si distinguono due principi fondamentali che possono rappresentare gli elementi determinanti della evoluzione del sistema giuridici previdenziale, nel senso di un sempre più incisivo intervento dello Stato e nel senso di una progressiva estensione della tutela previdenziale a nuove categorie di soggetti, oltre la categoria del lavoro subordinato.
L’art. 38 Cost., prevede che <<ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto a che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli invalidi e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti ed integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera>>.
L’evoluzione del sistema di previdenza sociale può dirsi segnata da questa norma.
L’espressione <<lavoratori>> del secondo comma della disposizione deve essere interpretata sistematicamente ed messo relazione al primo comma dell’art. 35 Cost. secondo il quale <<La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni>>.
Il sistema della previdenza sociale supera quindi ampiamente l’ambito del lavoro subordinato per estendersi a tutte le categorie di lavoratori.
D’altra parte, le prestazioni devono essere adeguate anche alle esigenze di vita della famiglia del lavoratore, alla luce del combinato disposto tra l’art. 38 Cost. e l’art. 36 Cost., ossia tra la garanzia dei mezzi adeguati alle esigenze di vita e la garanzia di una retribuzione proporzionata e sufficiente.
Ed ancora, l’art. 38 Cost. afferma all’ultimo comma il principio della libertà della previdenza privata, intesa come manifestazione della solidarietà che si esprime nelle formazioni sociali.
Il concetto è quello di una previdenza privata libera e volontaria,  destinata al soddisfacimento di un interesse privato ed anche incoraggiata e tutelata, costituendo essa anche una forma di risparmio (art. 47 Cost.).
La previdenza obbligatoria coniuga l’interesse pubblico con quello degli individui nella particolare accezione collettiva espressa dalla mutualità e dalla solidarietà, da qui discende il richiamo, nel comma 4 dell’art. 38, ad un modello flessibile di organizzazione del sistema previdenziale.
Ma la obbligatorietà che nasce dalla funzione viene superata dalla previsione che gli organi e gli istituti possono essere predisposti dallo Stato o dalla autonomia collettiva e proprio il raccordo con l’autonomia collettiva spiega il particolare posizionamento nell’art. 38 anche della previdenza complementare.
E’ stato affermato che la previdenza complementare funge da cerniera tra la previdenza privata di cui al comma 5 dell’art. 38 - unitamente al comma 1 dell’art. 47 - e la previdenza obbligatoria di cui al comma 2 della stessa norma.
Tale ruolo è stato assegnato dall’ordinamento nel momento di passaggio dal modello redistributivo al modello corrispettivo.
È stato altresì affermato da autorevole dottrina che la previdenza complementare è chiamata ad operare come un ammortizzatore dell’effetto di passaggio dall’uno all’altro modello, assicurando che il recupero di una effettiva corrispettività tra contributi e prestazioni non si traduca in inadeguatezza della prestazione previdenziale complessiva.
E’ evidente, ad una prima analisi, che dallo strumento rudimentale della beneficenza pubblica si è giunti alla previdenza sociale attraverso una evoluzione tesa principalmente alla realizzazione della sicurezza sociale, che trova la sua attuazione in tutto quel complesso sistema attraverso il quale la pubblica amministrazione realizza il fine pubblico della solidarietà con l’erogazione di beni e servizi ai cittadini che si trovano in condizioni di bisogno.
L’evoluzione normativa e gli interventi del legislatore e dei giudici:
1919 – viene istituita l’Assicurazione generale obbligatoria. L’età per la pensione di vecchiaia viene fissata a 65 anni per uomini e donne.
1935 – R.d.l. 1827, l’età resta confermata a 65 anni con possibilità di anticipo a 60, ma con penalizzazioni economiche variabili in funzione della ampiezza dell’anticipazione dal 37% al 10% dell’importo della pensione.
1939 – R.d.l. 636, l’età pensionabile è ridotta a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne.
1952 – Nella legge 218 vengono riconfermati i previdenti limiti di età.
1962 – Il CNEL, incaricato di svolgere una indagine sulla previdenza, si esprime a favore dell’innalzamento dell’età pensionabile in quanto l’elevamento dell’età minima rappresenta senza dubbio una delle condizioni fondamentali per rendere possibile il maggior sforzo finanziario derivante dalla estensione della pensione a tutti i cittadini.
1965 – Con la legge 903 viene introdotto nell’ordinamento dell’Assicurazione generale obbligatoria il pensionamento anticipato di anzianità, al quale si accede con 35 anni di contributi versati. E’ abolito il divieto di cumulo previgente.
1968 – La pensione di anzianità si rivela un errore: in meno di un triennio si spendono 170 miliardi di lire. Il Governo prova a scambiare l’abolizione del pensionamento anticipato con l’aggancio della pensione alla retribuzione. Nel D.lgs. 488 si dispone la formula retributiva, pari al 65% della retribuzione dell’ultimo triennio. Viene abolita la pensione di anzianità e si fissa un rigoroso divieto di cumulo.
1969 – Nella legge 153 si rafforza il calcolo retributivo, pari al 74% dei migliori tre anni negli ultimi cinque. Dal 1976 diventa l’80% e si introduce il sistema di effettività del sistema di perequazione automatica nonché la pensione sociale. Viene ripristinata la pensione di anzianità dopo 35 anni di versamenti, inclusa la contribuzione figurativa. Si attenua il divieto di cumulo.
1973 – Con il D.P.R. 1092 vengono consentite le “baby pensioni” nel pubblico impiego, dove già esistevano prestazioni più vantaggiose, oltre alla possibilità di pensionamento anticipato dopo 20 anni per i dipendenti statali, dopo 25 per i dipendenti degli enti locali. Le donne coniugate con prole possono ottenere il trattamento pensionistico già dopo 14 anni, sei mesi e un giorno.
1990 – La legge 233 riordina i trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi, le cui gestioni erano sorte in tempi diversi. L’età di vecchiaia viene fissata a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne. Per la pensione di anzianità valgono le medesime regole del lavoro dipendente.
1991 – La Corte Costituzionale con la sentenza 194 riconosce la legittimità della pensione di anzianità.
1992 – 1994 – Il Governo Amato eleva, a regime, la pensione di vecchiaia a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne, mentre per quella di anzianità istituisce un blocco per tutto il 1993. Successivamente, il Governo Ciampi introduce una penalizzazione economica nel pubblico impiego. In seguito, il Governo Berlusconi accelera l’andata a regime del pensionamento di vecchiaia (che termina nel 2000) e stabilisce un altro blocco per quello di anzianità.
1995 – Con la legge 335 (riforma Dini) viene riesaminata la disciplina del pensionamento di anzianità. A regime, nel 2008, si accede al trattamento pensionistico a 57 anni di età con 35 di contributi o a qualunque età con 40 anni di versamenti.
1997 – La legge 449 (riforma Prodi) rende un po’ più veloce la transazione del pensionamento di anzianità, salvo le deroghe per operai, equivalenti e precoci. Il pubblico impiego viene sostanzialmente parificato al lavoro privato.
2004 – La legge 243 (riforma Maroni) fissa il limite anagrafico minimo per il trattamento di anzianità a 60 anni a partire dal 2008 per arrivare, successivamente, a regime a 62 anni per i dipendenti e a 63 per gli autonomi.
Il quadro appena delineato costituisce lo sfondo nel quale collocare la materia della “previdenza complementare e integrativa”.
Secondo dati INPS, alla fine del 2008 l’età effettiva di pensionamento di uomini e donne risultava pressoché identica , tra i 60 e i 61 anni; mentre però i primi ci arrivano avendo versati in media 34/35 anni di contributi, le seconde non superano i 25/26 anni.
Secondo qualche osservatore la differenza attuale tra l’età di pensionamento maschile e quello femminile è interpretabile come una sorta di “compensazione a posteriori per opportunità negate a priori”.
Giova ripercorrere brevemente quali siano i requisiti di pensionamento delle donne, partendo dalla legislazione attualmente vigente. La premessa è che l’età di pensionamento varia in rapporto alla professione ed all’Ente di previdenza di riferimento (Inps, Inpdap, Casse di Previdenza, Enpals). Volendo però tracciare una regola media e individuando i requisiti del regime Inps: pensione di vecchiaia: per coloro che rientrano nell’applicazione dei metodi di calcolo retributivo e misto è necessario avere 60 anni di età e 20 di contributi (se la lavoratrice è invalida all’80% e per le lavoratrici non vedenti il requisito di età è di 55 anni)
pensione di anzianità: le lavoratrici dipendenti dal 1 gennaio 2008 possono accedere alla pensione con 35 anni di contributi e 58 anni di età; le lavoratrici autonome devono avere invece 59 anni di età e sempre 35 di contributi. Dal 1° luglio 2009 entrerà poi in vigore il cosiddetto “sistema delle quote”, in base al quale si consegue il diritto alla pensione al raggiungimento di una quota data dalla somma tra età anagrafica e contribuzione (almeno 35 anni di contributi). Le lavoratrici possono comunque continuare ad accedere al pensionamento di anzianità con 57 anni di età e 35 di contributi ma in questo caso si passa automaticamente dall’applicazione del metodo retributivo al contributivo (la pensione si riduce di circa il 20%).
Per le lavoratrici che rientrano nell’applicazione del metodo “contributivo” già in partenza vi è invece un solo tipo di pensione, senza distinzione tra vecchiaia e anzianità, per cui si richiedono invece 60 anni di età con almeno 5 anni di contribuzione (in precedenza uomini e donne potevano scegliere un’età compresa nel range 57-65 anni e ad ogni età corrispondeva un differente coefficiente di trasformazione, più bassi ad età più giovani, più elevati a salire); in alternativa sono richiesti almeno 35 anni di anzianità contributiva e l’età anagrafica prevista per la pensione di anzianità oppure almeno 40 anni di anzianità contributiva, a prescindere dall’età anagrafica.
Età di pensionamento previdenza integrativa: dal 1° gennaio 2007 si ha diritto alla pensione integrativa (fondi pensione negoziali, fondi pensione aperti, piani individuali di previdenza) dopo aver maturato i requisiti di acceso alla pensione obbligatoria (intendendosi per tale essenzialmente il pensionamento per vecchiaia), con almeno cinque anni di iscrizione alla previdenza complementare. L’ aderente può proseguire volontariamente la contribuzione (deducendo) con la facoltà di determinare autonomamente il momento di fruizione delle prestazioni pensionistiche. Gli orientamenti Covip dello scorso 14 novembre forniscono chiarimenti precisando che le condizioni sono rappresentate dal poter vantare almeno un anno di contribuzione e dall’aver raggiunto i requisiti anagrafici per il pensionamento. Nel caso poi di cessazione dell'attività lavorativa che comporti l'inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi, le prestazioni pensionistiche sono, su richiesta dell'aderente, consentite con un anticipo massimo di cinque anni rispetto ai requisiti per l'accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza.
Per i fondi pensione del pubblico impiego, non applicandosi ancora la nuova normativa, si distinguono ancora la pensione di vecchiaia e la pensione di anzianità. In particolare: prestazione pensionistica per vecchiaia che si consegue: al raggiungimento dell’etè pensionabile del regime obbligatorio;
con un minimo di 5 anni di partecipazione al fondo.
prestazione pensionistica per anzianitè che si consegue: con la cessazione dell’attività lavorativa; con almeno 15 anni di partecipazione al fondo; con un’età anagrafica di non più di 10 anni inferiore a quella pensionabile prevista dal regime obbligatorio.
L’art. 30, Divieti di discriminazione nell´accesso alle prestazioni previdenziali, del D. Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), specificamente prevede inoltre che «le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare per la prosecuzione della prestazione di lavoro fino al raggiungimento degli stessi limiti di età previsti per gli uomini dalle disposizioni vigenti, di legge, regolamentari o contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia».
Per le donne lavoratrici, ritirarsi dal lavoro a 60 anni, costituisce l’esercizio di un diritto (soggettivo) e non una imposizione normativa. Si tratta semplicemente di una possibilità, di una facoltà, che, in quanto tale, risulta esercitabile o meno, sulla base di una libera scelta, dettata da necessità e condizioni personali, che solo la lavoratrice interessata è in grado di valutare. Ma v’è di più. Le donne lavoratrici possono permanere al lavoro oltre i 60 anni anche senza sottostare al modesto onere burocratico di effettuare un’opzione da notificare al datore pubblico o privato.
L’inesistenza di tale onere burocratico di comunicazione dell’opzione da parte della donna (re-introdotto dal legislatore nell’art. 30 d.lgs. n. 198/06 sopracitato) venne pacificamente asseverata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 498/88, investita espressamente di pronunciarsi sull’indebito onere di comunicazione – a pena di decadenza – per la fruizione del diritto alle garanzie di stabilità in ordine alla cessazione del rapporto fino alla stessa età dell’uomo, fissate all’epoca nell’art. 4 della l. n. 903/77 di parità uomo-donna.
La sentenza dichiarò l’onere di comunicazione dell’opzione addossato alla donna incostituzionale.
Così motivando: «L´art. 4 della legge n. 903 del 1977, ora censurato, attribuisce alla donna lavoratrice, nonostante che sia in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, la possibilità di continuare a prestare la sua opera negli stessi limiti di durata del rapporto di lavoro prevista per l´uomo lavoratore da disposizioni legislative regolamentari, contrattuali. Ma per la sola donna richiede un´opzione in tal senso e la sua comunicazione al datore di lavoro, da farsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione. E´ evidente che la lavoratrice, rispetto al lavoratore, ha avuto un trattamento diverso che non ha alcuna ragionevole giustificazione proprio per i principi affermati più volte da questa Corte sulla parità uomo-donna in materia di lavoro e, in particolare, per quelli posti a fondamento della sentenza n. 137 del 1986. Con la suddetta sentenza, dichiarandosi la illegittimità costituzionale dell´art. 11 della legge n. 604 del 1966, che prevedeva la possibilità di licenziamento ad nutum della donna al cinquantacinquesimo (ora sessantesimo, ndr) anno di età e non al sessantesimo (ora sessantacinquesimo, ndr), come per l´uomo, si è sancito il diritto della prima alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino alla stessa età prevista per l´uomo e le si è, correlativamente, assicurata la stabilità nel posto di lavoro fino a tale età.
Nella fattispecie, siccome la richiesta opzione discrimina la donna rispetto all´uomo per quanto riguarda l´età massima di durata del rapporto di lavoro stabilita da leggi, regolamenti e contratti, e, quindi, la protrazione del rapporto, sussiste la violazione dell´art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell´art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro, e va, quindi, dichiarata l´illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede l´opzione. Si ribadisce così che l´età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l´uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo (ora sessantesimo, ndr) anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione. La protrazione della durata del rapporto di lavoro, cioé dell´età lavorativa, consente anche alla donna lavoratrice di conseguire i relativi vantaggi, come, ad esempio, gli aumenti retributivi e i conseguenti aumenti di pensione».
Le sentenze della Corte Costituzionale nn. 137/86 e 498/88, seguite dall’ordinanza di rigetto n. 256/2002, avevano così introdotto nell’ordinamento la regola secondo cui l’età lavorativa della donna deve coincidere con quella dell’uomo, cosicché la prima fruisce del regime di stabilità del rapporto fino a quando ne fruisce il secondo, senza alcun onere di comunicazione burocratica dell’opzione. Dopo l’elevazione a 65 anni della massima età pensionabile, il principio paritario è stato riaffermato anche in sede di magistratura di legittimità, da Cass. sez. lav. 1.6. 2006 n. 13045 (est. Di Nubila), la cui massima recita:«Per quanto concerne le lavoratrici dipendenti, premesso che in base al combinato disposto delle disposizioni di legge che si sono succedute nel tempo deve distinguersi tra età pensionabile ed età massima lavorativa, entità non coincidenti in quanto nell’attuale ordinamento l’età massima lavorativa, più elevata, corrisponde all’età pensionabile stabilita per i lavoratori dell’altro sesso, la tutela obbligatoria, unitamente a quella reale (ricorrendo di questa le condizioni di legge) deve ritenersi estesa a tutte le lavoratrici che, pur avendo raggiunto l’età pensionabile, non hanno ancora conseguito l’età massima lavorativa, con la conseguenza che alle stesse compete il diritto di proseguire il rapporto di lavoro anche dopo il compimento dell’età pensionabile e fino al giorno del raggiungimento dell’età massima lavorativa, senza necessità di alcun onere di comunicazione, da parte loro, al datore di lavoro, e con l’ulteriore conseguenza che a quest’ultimo è fatto divieto di esercitare il recesso ad nutum nell’arco di tempo indicato».
Scelta volontaria in termini di stretto diritto, ma – secondo condivisibili opinioni – spesso imposta dalla situazione di fatto caratterizzata da una carenza di strutture di supporto da parte dello Stato tese ad alleviare i disagi dei servizi di cura nell’ambito della famiglia.
Il contenuto della materia, dunque, alla luce dell’evoluzione normativa impressa dalle leggi di riforma del 1993 e 1995 ruota intorno a due fulcri:
· il nesso funzionale con la previdenza obbligatoria che ne ha oggettivamente trasformato i caratteri, ponendo in discussione la sua connotazione privatistica;
· il principio di libertà e più precisamente di “una libertà di tipo funzionale, in quanto, appunto gli atti di estrinsecazione della stessa devono essere finalizzati al conseguimento dello specifico obiettivo della previdenza complementare”.
Il dato normativo, inoltre, è accompagnato da un’opera di interpretazione della Corte tesa a stabilizzarne l’interpretazione in tal senso. La collocazione della previdenza complementare nel sistema dell’art. 38, secondo comma, è stata più volte confermata dalla Corte costituzionale dopo la riforma del 1995.
Assolutamente netta in tal senso è la sent. n. 393/2000 in cui la Corte, dopo aver ricostruito il sistema normativo così come modificato per effetto delle riforme del 1993-1995, ed aver fatto cenno ad una “tendenza riformatrice” più volte evidenziata (sent.421/1995; 292/1997; 178/2000) afferma che “alla stregua dell’evidenziato quadro normativo non può essere posta in dubbio la scelta del legislatore, enunciata sin dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421, e, confermata nei successivi interventi, di istituire (così come, del resto, non sfugge allo stesso rimettente) un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, collocando quest’ultima nel sistema dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione.”
Il riferimento che la Corte opera ad un modello interpretativo che lega il secondo comma dell’art. 38 (comprensivo della  previdenza complementare) al principio di solidarietà (per cui vi sarebbe un "dovere specifico di cura dell’interesse pubblico a integrare le prestazioni previdenziali, altrimenti inadeguate, spettanti ai soggetti economicamente più deboli") mette in discussione la stessa configurazione della previdenza complementare come strumento che, secondo la dizione della legge, assicura più elevati livelli di copertura. La previdenza complementare, infatti, pare concorrere (più che aggiungersi) con quella obbligatoria per assicurare livelli adeguati di pensione.
Da questo punto di vista la distinzione tra previdenza obbligatoria come necessaria e previdenza complementare come eventuale è in parte superata nella parte in cui quella complementare concorre al mantenimento della prestazione adeguata poiché per quella parte anch’essa si fonda, come la previdenza obbligatoria, sulla situazione giuridica soggettiva e non sul rapporto giuridico.
A questo punto vi è da chiedersi se i livelli essenziali coincidano o meno con la previdenza di base.
In teoria la risposta potrebbe essere positiva ma il vero problema non è teorico ma pratico e di effettività della tutela: per cui il confine è mobile ed è evidente che se si diminuiscono le garanzie della previdenza sociale inevitabilmente quella complementare entra a definire i livelli essenziali.
Dall’inizio degli anni Novanta il sistema pensionistico italiano è stato oggetto di un articolato processo di riforma volto a contenere la spesa pensionistica in modo da garantirne la sostenibilità finanziaria.
Tale riforma rappresenta un’importante evoluzione nella storia della previdenza italiana. Essa è infatti incentrata sullo sviluppo di un sistema pensionistico basato su due “pilastri”.
E’ noto, le prestazioni pensionistiche che saranno pagate in particolare ai lavoratori entrati nel mondo del lavoro dopo il 1° gennaio 1996 o con pochi anni di servizio a quella data, saranno inferiori di quelle pagate nel passato.
t-align: justify;">All’uopo, deve darsi atto della evoluzione giurisprudenziale della Corte Costituzionale in relazione alle connessioni tra andamento dell’economia e previdenza sociale, laddove, abbandonata l’impostazione risalente che assumeva a presupposto l’equiparazione dei trattamenti previdenziali alla retribuzione (dando applicazione al principio di proporzionalità e sufficienza enunciato dal primo comma dell’art. 36 Cost.), il giudice delle leggi ha avvertito e condiviso l’azione legislativa per il superamento della crisi finanziaria delle gestioni previdenziali e gli interventi finalizzati alla razionalizzazione del sistema, sino a riconoscere come legittima la riduzione dell’effettività della tutela laddove necessitata da « inderogabili esigenze » di bilancio.
Conferme, in proposito, si hanno proprio da quella svolta nella giurisprudenza della Corte indotta dalla crisi finanziaria del sistema pensionistico, laddove i giudici, chiamati a valutare la legittimità costituzionale degli interventi di razionalizzazione succedutisi nel periodo 1992-2004, hanno condiviso le preoccupazioni del legislatore e le profonde modifiche che lo stesso aveva apportato all’assetto del nostro sistema previdenziale e, in particolare, di quello pensionistico.
Così la Corte costituzionale ha escluso l’illegittimità di leggi che operavano
una riduzione delle prestazioni pensionistiche quando questa poteva essere giustificata dalla « necessità economica-sociale di evitare in un momento di grave crisi economica notevoli disparità tra le categorie dei pensionati » e da « superiori esigenze di politica sociale »; ovvero dall’esigenza di « copertura del bilancio statale » sul quale era stato fatto « ricadere l’onere di integrare e ripianare il deficit degli enti previdenziali »; o ancora dall’ « inderogabile esigenza di assicurare un equilibrato andamento del bilancio » per evitare l’« insorgenza di notevoli difficoltà finanziarie ( . . . ), che avrebbero potuto riflettersi sulla capacità stessa di effettuare in futuro le prestazioni pensionistiche a tutti gli aventi diritto ». È un mutamento di prospettiva rispetto alla prima giurisprudenza costituzionale che equiparava la pensione alla retribuzione; la Corte si fa carico di governare il processo di modifica della comune ideologia normativa di cui quella prima giurisprudenza era espressione, assumendo a riferimento l’art. 38 Cost. e la garanzia dei « mezzi adeguati alle esigenze di vita », nonché conseguentemente il perseguimento dell’interesse generale che è anzitutto quello di « dare sicurezza ai pensionati attuali e futuri sulla tenuta finanziaria del sistema stesso ».
Pertanto, l’adesione alla previdenza complementare, pur non essendo obbligatoria, è quindi un‘interessante opportunità per garantire ai pensionati di domani un reddito di importo adeguato.
Una delle novità più importanti della Riforma riguarda il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) che può essere utilizzato come fonte di finanziamento delle forme pensionistiche complementari.
Sono interessati alla riforma della previdenza complementare attuata con il d. lgs. n.252/2005 ed entrata in vigore dal 1° gennaio 2007 tutti i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti, ad esclusione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sotto elencate. In base alla disciplina del d. lgs. n. 252/2005 o del d. lgs. n.124/1993, possono aderire alle forme pensionistiche complementari le seguenti tipologie di lavoratori:
1. i lavoratori dipendenti sia del settore privato che del settore pubblico;
2. i lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali previste dal d. lgs. n.276/03 (legge   Biagi): soggetti con contratto di lavoro in somministrazione, con contratto di lavoro intermittente, con contratto di lavoro ripartito, con contratto di lavoro a tempo parziale, con contratto di apprendistato, con contratto di inserimento, con contratto di lavoro a progetto, con contratto di lavoro occasionale;
3. i lavoratori autonomi;
4. i liberi professionisti;
5. i soci lavoratori di cooperative;
6. i soggetti che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari nonché i soggetti che svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta.
Naturalmente, la specifica disciplina sul conferimento del Trattamento di fine rapporto (TFR) alle forme pensionistiche complementari trova applicazione solo con riferimento ai lavoratori dipendenti.
Alle forme pensionistiche complementari di carattere individuale (fondi aperti e PIP) possono aderire anche soggetti diversi da quelli sopra elencati, come ad esempio i soggetti che non hanno reddito da lavoro.
Possono inoltre iscriversi alle forme pensionistiche complementari anche i c.d. "soggetti fiscalmente a carico" cioè quei soggetti rispetto ai quali il percettore del reddito fruisce delle deduzioni o delle detrazioni prevista dalla normativa fiscale vigente.
Tutto ciò premesso, l’evoluzione della previdenza sociale entra necessariamente in contatto ed attraversa la elaborazione dei principi antidiscriminatori predisposti dall’ordinamento in favore delle donne lavoratrici, notoriamente più penalizzate in ambito lavorativo.
Il concetto di pari opportunità nel lavoro, inteso come dimensione infungibile della piena ed attiva partecipazione delle donne alla vita economica e sociale del Paese, è stato interessato dal passaggio da forme di tutela formale ed astratta – caratterizzanti la prima fase dell’affermazione dell’identità e dei diritti di genere nel primo Novecento – a forme di tutela specificatamente mirate alla concreta rimozione delle disuguaglianze di fatto.
Storicamente, il compiersi di tale passaggio può essere collocato negli anni settanta allorquando il tessuto normativo – sino ad allora costituito da provvedimenti di carattere prevalentemente e meramente protettivo – si arricchisce di importanti leggi di riforma che iniziano a considerare le problematiche sociali della condizione lavorativa femminile nella loro dimensione concreta e nella loro specifica complessità.
Ci si riferisce, in primo luogo, alle leggi nn. 1204 e 1044 del 1971, rispettivamente in materia di asili nido e tutela delle lavoratrici madri. Ad esse seguirà la legge n. 903/1977, “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, tesa ad assicurare la pari dignità delle lavoratrici e la parità di trattamento economico e normativo rispetto ai lavoratori di sesso maschile, da ottenersi anche attraverso un riequilibrio dei ruoli all’interno della famiglia e all’incentivazione finanziaria del lavoro femminile.
Nello stesso periodo si inseriscono gli interventi delle istituzioni comunitarie finalizzati alla realizzazione del principio di uguaglianza tra uomini e donne nel lavoro, già implicitamente previsto nel Trattato di Roma. Si tratta della direttiva 9 febbraio 1976, n. 207 in materia di parità di accesso al lavoro, alla formazione e alle promozioni professionali da realizzarsi mediante l’eliminazione delle discriminazioni fondate, direttamente o indirettamente, sul sesso, della direttiva 19 dicembre 1978, n. 7 relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale e della direttiva del Consiglio 11 dicembre 1986, n. 613 che, da un lato, estendeva le forme di tutela già previste per le lavoratrici subordinate a quelle che esercitavano attività autonoma o di lavoro agricolo, dall’altro, prevedeva specifiche misure in tema di tutela della maternità.
Attualmente, l’intera normativa in materia di misure a sostegno della maternità e della paternità, oggetto di un’operazione di complessiva sistematizzazione e di riordino, è contenuta nel D. lgs n. 151/2001, emanato dal Governo a seguito della delega contenuta nell’art. 15 della legge n. 53/2000.
L’art. 2 del Trattato UE – nella formulazione conseguente al Trattato di Amsterdam – prevede che l’azione della Comunità deve essere rivolta anche al perseguimento della parità tra uomini e donne.
Al Consiglio è stata attribuita la competenza ad adottare, in base alla procedura di co-decisione, e previa consultazione del Comitato economico e sociale, le misure necessarie ad assicurare il principio della pari opportunità di trattamento tra uomini e donne.
Tali misure, qualificate come “azioni positive”, ex art. 141 del Trattato, sul versante degli Stati membri consistono nel mantenimento o nella nuova previsione di vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato, allo scopo di garantire un’effettiva e completa parità di trattamento tra uomini e donne.
La parità tra uomini e donne è l’obiettivo degli interventi previsti dal Programma concernente la strategia comunitaria in materia di parità tra donne e uomini, approvato dal Consiglio dell’Unione con decisione n. 2000/51/CE del 20 dicembre 2000.
Da ciò emerge che la produzione normativa – una volta tracciate le coordinate fondamentali della politica antidiscriminatoria – sia ormai decisamente influenzata dalla consapevolezza dell'insufficienza del principio di parità formale.
Tale consapevolezza ha determinato un'evoluzione graduale dei concetti di discriminazione e parità, e, quindi, l'elaborazione di un nuovo corpo di norme giuridiche e di nuove tecniche istituzionali di intervento.
A livello nazionale, il mercato del lavoro costituisce il primo (e tuttora, principale) settore di intervento in materia di promozione di azioni positive.
Se ne è occupata la legge n. 125/1991 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) espressamente rivolta a “favorire l'occupazione femminile e realizzare, l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante l'adozione di misure idonee a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità” (art.1).
Le azioni positive hanno in particolare lo scopo di eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità, favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne, favorire l'accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici, superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione, nell'avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo, promuovere l'inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologica-mente avanzati ed ai livelli di responsabilità, favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l'equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.
Ai nostri fini, è opportuno anche dare indicazione del D. lgs. n. 196/2007, con il quale è stata data attuazione nel nostro ordinamento alla Direttiva 2004/113/CE, per la parità di trattamento tra uomini e donne nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura.
In particolare, si evidenzia il nuovo art. 55-quater del predetto Codice, riguardante la parità di trattamento tra uomini e donne nei servizi assicurativi e altri servizi finanziari, che impone ai fornitori dei predetti servizi di prevedere premi e prestazioni unisex con riguardo a tutti i nuovi contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore del D. lgs. 196/2007.
La norma citata afferma tuttavia la possibilità di prevedere differenze proporzionate nei premi e nelle prestazioni individuali allorché il fattore sesso risulti ancora determinante nella valutazione dei rischi, in base a pertinenti ed accurati dati attuariali e statistici.
La “fragilità” della condizione previdenziale delle donne è frutto in larga parte di una più tardiva ed a volte intermittente, e diversa partecipazione delle stesse ad un mercato del lavoro caratterizzato, ancor oggi, da marcate differenze e da una asimmetria di genere nella distribuzione del lavoro familiare e di cura dei figli e degli anziani. Nonostante si sia assistito negli ultimi anni ad una crescita dell’occupazione femminile, dovuta in larga misura alla diffusione del part-time, siamo ancora distanti dai tassi di occupazione femminile che si registrano in ambito europeo, e ancor più dal raggiungimento, entro il 2010, dell’obiettivo del 60% di partecipazione femminile al mercato del lavoro fissato dalla strategia di Lisbona.
Nonostante i risultati raggiunti per effetto dei diversi provvedimenti normativi succedutisi, sempre più orientati a promuovere le condizioni necessarie per una concreta e sostanziale realizzazione del principio delle pari opportunità, e volti a favorire una maggiore crescita della presenza femminile nel mercato del lavoro, non si può non rilevare che permangono ancora gravi debolezze strutturali nel mercato del lavoro, quali, ad esempio, barriere all’accesso al lavoro determinate in gran parte dai carichi familiari, diversità nei percorsi di sviluppo professionale che caratterizzano il lavoro femminile, e scarsa presenza femminile nelle posizioni più elevate.
Negli ultimi anni l’evoluzione del mercato del lavoro e l’espansione del ricorso a tipologie di lavoro flessibile, se da un lato, offrono ai lavoratori e alle lavoratrici ulteriori possibilità di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro (part-time e contratti “ad orario modulato”), dall’altro ha posto (e pone) l’esigenza di garantire livelli di tutela uniformi per le lavoratrici.
Le pensionate di domani raccoglieranno anche i frutti di un mercato del lavoro post-fordista, in uno scenario globalizzato che sul terreno della continuità e della tutela dei diritti appare oggi più fragile e più discontinuo, più precario rispetto al passato.
La condizione previdenziale delle donne è rivelatrice di percorsi di vita personali e familiari che, generalmente, vedono un loro più tardivo ingresso nel mercato del lavoro legale o una presenza più intermittente, una difficile conciliazione del mantenimento del lavoro con la maternità e la cura dei figli, anche per un sistema di welfare locale ancora insufficiente e rigido, per inadeguate opportunità di “rientro” nel mercato del lavoro dopo questa fase; carriere più “lente” e meno accessibili, anche in relazione alla minore disponibilità di tempo; gap tra titoli di studio e ruoli effettivi; differenziali retributivi con uomini a parità di ruolo.
E’ noto che l’Italia presenta un quadro demografico e produttivo particolarmente problematico, con diffusa disoccupazione, specie nel Sud.
Le riforme previdenziali susseguitesi nel tempo (503/92; 537/93; 724/94; 335/95; 449/97) hanno avuto una incidenza specifica sulla condizione delle donne.
Il Consiglio Europeo di Lisbona, nel 2000, ha stabilito un obiettivo di almeno il 60% di donne occupate in Europa entro il 2010.
Ma solo alcuni Paesi europei, come ad esempio i Paesi scandinavi e il Regno Unito, hanno già raggiunto questo obiettivo.
L’Italia invece è uno dei Paesi europei con la più bassa occupazione femminile - con un tasso del 43% circa - e detiene il terzo posto in Europa nella classifica della disoccupazione femminile.
Le debolezze croniche del lavoro femminile determinano una condizione critica delle donne nel mondo della previdenza. Bisogna tenerne conto, mettendo in campo strumenti che riducano le disparità tra i sessi, in particolare il profondo gap tra uomini e donne relativo all’importo delle pensioni.
In merito alla rendita vitalizia integrativa della pensione delle donne lavoratrici, l’esistenza di tabelle differenziate per uomini e donne, dovuta al fatto che le donne statisticamente vivono più degli uomini implica, una penalizzazione in termini percentuali di circa il 25-30% in meno su una mensilità rispetto agli uomini.
Ciò in palese contrasto non solo con la logica mutualistica alla base di ogni sistema previdenziale, ma anche e soprattutto al principio di uguaglianza tra uomini e donne.
In questo contesto, rinsalda la più recente propensione all’elevazione dell’età pensionabile della donna, la sentenza della Corte di Giustizia europea, resa il 13 novembre 2008 (causa C-46/07). La sentenza scaturisce da un ricorso proposto dalla Commissione delle Comunità Europee nei confronti dello Stato italiano, teso ad ottenere dalla Corte medesima la dichiarazione del mancato adempimento dell’Italia rispetto agli obblighi previsti dall’art. 141 del trattato istitutivo della C.E. - che vieta qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, qualunque sia il meccanismo generatore dell’ineguaglianza – per avere consentito il nostro Paese la vigenza di una normativa riconoscente il diritto dei pubblici dipendenti al trattamento pensionistico di vecchiaia, con differenziazione dell’età pensionabile a seconda del sesso.
La Corte ha rigettato l’argomentazione del Governo italiano secondo cui la concessione di un pensionamento anticipato ai 60 anni per la donna costitusce una misura compensativa delle eventuali presunte discriminazioni in corso di rapporto.
A tale scopo argomentando che: «Anche se l’art. 141, n. 4, CE autorizza gli Stati membri a mantenere o a adottare misure che prevedano vantaggi specifici, diretti a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali, al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne nella vita professionale, non se ne può dedurre che questa disposizione consente la fissazione di una tale condizione di età diversa a seconda del sesso. Infatti, i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo. (…) Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale».
Il pensiero dell’Alta corte di giustizia europea suona quindi come sollecitazione a porre in atto – da parte del legislatore italiano – effettive misure riequilibratrici degli svantaggi e dei disagi per la donna lavoratrice, non riconoscendo emblematicamente al cd. “sconto” d’età pensionabile carattere in alcun modo compensativo per la donna lavoratrice.
Più di recente, si discute a livello politico della iniziativa di legge che prevede l’elevazione graduale, nel regime contributivo a partire dal 2014 (allorquando dovrebbe essere entrato a regime in modo parziale o totale il sistema pensionistico contributivo), a sessantadue anni dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti, autonome e libere professioniste appartenenti a tutti i regimi, in ragione di un anno ogni due, a decorrere dal 1° gennaio 2010. Al tempo stesso si propone, con gradualità, di istituire per i lavoratori e le lavoratrici cui si applica il sistema contributivo, un pensionamento unificato di vecchiaia che - fermo restando il diritto al pensionamento con 40 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica - promuova l’allungamento della vita lavorativa e garantisca una flessibilità di opzioni per il requisito anagrafico di quiescenza, compreso tra un minimo di 62 ed un massimo di 67 anni.
Il disegno di legge n. 1299 prevede che il Governo è delegato ad adottare, uno o più decreti legislativi contenenti norme intese a completare il riordino del sistema previdenziale, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) elevazione graduale, nel regime contributivo, a sessantadue anni dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti, autonome e libere professioniste appartenenti a tutti i regimi in ragione di un anno ogni due anni a decorrere dal 1o gennaio 2010; sono fatte comunque salve le normative vigenti che prevedono requisiti anagrafici più elevati. Con la medesima decorrenza e con riferimento alle lavoratrici di cui alla presente lettera, non si applica quanto previsto dall’articolo 1, comma 5, lettere b) e c), della legge 24 dicembre 2007, n. 247; b) istituzione, con decorrenza dal 1° gennaio 2014 per i lavoratori e le lavoratrici cui si applica il sistema contributivo, di un pensionamento unificato di vecchiaia che, fermo restando il diritto al pensionamento con quaranta anni di contribuzione a prescindere dall’età anagrafica, promuova l’allungamento della vita lavorativa e garantisca una flessibilità di opzioni per il requisito anagrafico di quiescenza, compreso tra un minimo di sessantadue e un massimo di  sessantasette anni; c) applicazione ai lavoratori e alle lavoratrici di cui alla  lettera b) del presente comma dei coefficienti di trasformazione previsti dai commi 12 e 14 dell’articolo 1 della legge 24 dicembre 2007,n. 247, ricalcolati sulla base dei requisiti anagrafici di cui alla stessa lettera b), da sottoporre a revisione automatica triennale ai sensi dell’articolo 1, comma 11, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni (…)
e) riconoscimento di agevolazioni alle lavoratrici madri, anche stabilendo che i periodi di astensione dal lavoro per maternità e puerperio valgano il doppio fino a un massimo di anni due. (…).
a) realizzare un’effettiva parità di condizioni tra le diverse forme di  previdenza complementare anche mediante la continuità della corresponsione del previsto contributo del datore di lavoro nel caso di trasferimento della posizione individuale del lavoratore.

La tutela previdenziale in Italia nasce poco prima del periodo corporativo come strumento di protezione connesso al rapporto di lavoro e destinato a realizzare un vincolo di solidarietà tra i datori di lavoro e i lavoratori. Il momento genetico è quello della emanazione della legge n. 80 del 17 marzo 1898, che rese obbligatoria per i datori di lavoro l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. 
Lo strumento, governato dal principio di corrispettività tra contributi versati e prestazioni erogate, era modellato sul contratto dell’assicurazione privata, ed era dotato di estrema flessibilità, flessibilità che ne ha segnato la nascita, e ne ha accompagnato lo sviluppo, attraverso i radicali cambiamenti storici, economici e sociali.

La scelta dello strumento assicurativo era giustificata da una serie di motivazioni, quali l’affinità con il precedente storico rappresentato dalle società di mutuo soccorso, la maggiore economicità rispetto alle forme di tutela a carico dell’erario, la flessibilità e la potenzialità selettiva dello strumento assicurativo, la maggiore compatibilità con l’ideologia liberale del periodo storico. 
Nello stesso periodo di tempo, venne istituita la Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai (l. 17 luglio 1898 n. 350), la quale gettò le basi di una più ampia solidarietà tra lavoratori e al finanziamento della quale saranno chiamati a partecipare anche i datori di lavoro (d.lgs. 21 aprile 1919, n. 603).

Emerge immediatamente il carattere pubblicistico della tutela previdenziale, nel senso che la sua piena attuazione ancorché imposta dalla legge è condizionata dall’adempimento degli obblighi posti a carico del datore di lavoro.
Lo Stato si limita a dar vita ai nuovi istituti, a dettare con legge la disciplina dei rapporti, mentre il compito di realizzare la tutela previdenziale resta assegnato agli stessi interessati. Il fine pubblico a fondamento delle assicurazioni sociali ha ad oggetto il mantenimento dell’ordine pubblico. Invero, i concetti dell’assistenza sociale e della previdenza sociale sono nati con la stessa motivazione politica, il mantenimento dell’ordine costituito, nel timore che l’indigenza potesse indurre a ribellarsi a tale ordine costituito.

In tale prospettiva, è agevole comprendere come la previdenza sociale dei lavoratori subordinati abbia avuto uno sviluppo più intenso dell’assistenza sociale, dovuto al sorgere di una coscienza di classe e per la preoccupazione di diminuire la tensione determinata dai nuovi rapporti sociali. Un notevole passo avanti avviene nell’immediato dopoguerra, con l’affermazione del principio di sicurezza sociale, che esprime l’esigenza che venga garantita a tutti i cittadini la libertà dal bisogno, in quanto ritenuta condizione indispensabile per l’effettivo godimento dei diritti civili e politici. Questa libertà, garantita dallo Stato, diviene un fine da perseguire a mezzo della solidarietà generale.

L’idea della sicurezza sociale è stata ampiamente accolta dal nostro ordinamento.
Una importanza determinante deve essere attribuita al principio secondo il quale è compito dello stato rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, II co., Cost.).
Si tratta della liberazione dal bisogno quale interesse generale della collettività.

La libertà dal bisogno non può essere realizzata dai singoli che pure ne sono titolari ma deve essere garantita dallo Stato. 
Si distinguono due principi fondamentali che possono rappresentare gli elementi determinanti della evoluzione del sistema giuridici previdenziale, nel senso di un sempre più incisivo intervento dello Stato e nel senso di una progressiva estensione della tutela previdenziale a nuove categorie di soggetti, oltre la categoria del lavoro subordinato.

L’art. 38 Cost., prevede che <<ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto a che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli invalidi e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti ed integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera>>.
L’evoluzione del sistema di previdenza sociale può dirsi segnata da questa norma.

L’espressione <<lavoratori>> del secondo comma della disposizione deve essere interpretata sistematicamente ed messo relazione al primo comma dell’art. 35 Cost. secondo il quale <<La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni>>.
Il sistema della previdenza sociale supera quindi ampiamente l’ambito del lavoro subordinato per estendersi a tutte le categorie di lavoratori.
D’altra parte, le prestazioni devono essere adeguate anche alle esigenze di vita della famiglia del lavoratore, alla luce del combinato disposto tra l’art. 38 Cost. e l’art. 36 Cost., ossia tra la garanzia dei mezzi adeguati alle esigenze di vita e la garanzia di una retribuzione proporzionata e sufficiente.

Ed ancora, l’art. 38 Cost. afferma all’ultimo comma il principio della libertà della previdenza privata, intesa come manifestazione della solidarietà che si esprime nelle formazioni sociali.
Il concetto è quello di una previdenza privata libera e volontaria,  destinata al soddisfacimento di un interesse privato ed anche incoraggiata e tutelata, costituendo essa anche una forma di risparmio (art. 47 Cost.).
La previdenza obbligatoria coniuga l’interesse pubblico con quello degli individui nella particolare accezione collettiva espressa dalla mutualità e dalla solidarietà, da qui discende il richiamo, nel comma 4 dell’art. 38, ad un modello flessibile di organizzazione del sistema previdenziale.

Ma la obbligatorietà che nasce dalla funzione viene superata dalla previsione che gli organi e gli istituti possono essere predisposti dallo Stato o dalla autonomia collettiva e proprio il raccordo con l’autonomia collettiva spiega il particolare posizionamento nell’art. 38 anche della previdenza complementare. 
E’ stato affermato che la previdenza complementare funge da cerniera tra la previdenza privata di cui al comma 5 dell’art. 38 - unitamente al comma 1 dell’art. 47 - e la previdenza obbligatoria di cui al comma 2 della stessa norma. 
Tale ruolo è stato assegnato dall’ordinamento nel momento di passaggio dal modello redistributivo al modello corrispettivo.
È stato altresì affermato da autorevole dottrina che la previdenza complementare è chiamata ad operare come un ammortizzatore dell’effetto di passaggio dall’uno all’altro modello, assicurando che il recupero di una effettiva corrispettività tra contributi e prestazioni non si traduca in inadeguatezza della prestazione previdenziale complessiva.
E’ evidente, ad una prima analisi, che dallo strumento rudimentale della beneficenza pubblica si è giunti alla previdenza sociale attraverso una evoluzione tesa principalmente alla realizzazione della sicurezza sociale, che trova la sua attuazione in tutto quel complesso sistema attraverso il quale la pubblica amministrazione realizza il fine pubblico della solidarietà con l’erogazione di beni e servizi ai cittadini che si trovano in condizioni di bisogno.

L’evoluzione normativa e gli interventi del legislatore e dei giudici:

1919 – viene istituita l’Assicurazione generale obbligatoria. L’età per la pensione di vecchiaia viene fissata a 65 anni per uomini e donne.

1935 – R.d.l. 1827, l’età resta confermata a 65 anni con possibilità di anticipo a 60, ma con penalizzazioni economiche variabili in funzione della ampiezza dell’anticipazione dal 37% al 10% dell’importo della pensione.

1939 – R.d.l. 636, l’età pensionabile è ridotta a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne.

1952 – Nella legge 218 vengono riconfermati i previdenti limiti di età.

1962 – Il CNEL, incaricato di svolgere una indagine sulla previdenza, si esprime a favore dell’innalzamento dell’età pensionabile in quanto l’elevamento dell’età minima rappresenta senza dubbio una delle condizioni fondamentali per rendere possibile il maggior sforzo finanziario derivante dalla estensione della pensione a tutti i cittadini.

1965 – Con la legge 903 viene introdotto nell’ordinamento dell’Assicurazione generale obbligatoria il pensionamento anticipato di anzianità, al quale si accede con 35 anni di contributi versati. E’ abolito il divieto di cumulo previgente.

1968 – La pensione di anzianità si rivela un errore: in meno di un triennio si spendono 170 miliardi di lire. Il Governo prova a scambiare l’abolizione del pensionamento anticipato con l’aggancio della pensione alla retribuzione. Nel D.lgs. 488 si dispone la formula retributiva, pari al 65% della retribuzione dell’ultimo triennio. Viene abolita la pensione di anzianità e si fissa un rigoroso divieto di cumulo.

1969 – Nella legge 153 si rafforza il calcolo retributivo, pari al 74% dei migliori tre anni negli ultimi cinque. Dal 1976 diventa l’80% e si introduce il sistema di effettività del sistema di perequazione automatica nonché la pensione sociale. Viene ripristinata la pensione di anzianità dopo 35 anni di versamenti, inclusa la contribuzione figurativa. Si attenua il divieto di cumulo.

1973 – Con il D.P.R. 1092 vengono consentite le “baby pensioni” nel pubblico impiego, dove già esistevano prestazioni più vantaggiose, oltre alla possibilità di pensionamento anticipato dopo 20 anni per i dipendenti statali, dopo 25 per i dipendenti degli enti locali. Le donne coniugate con prole possono ottenere il trattamento pensionistico già dopo 14 anni, sei mesi e un giorno.

1990 – La legge 233 riordina i trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi, le cui gestioni erano sorte in tempi diversi. L’età di vecchiaia viene fissata a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne. Per la pensione di anzianità valgono le medesime regole del lavoro dipendente.

1991 – La Corte Costituzionale con la sentenza 194 riconosce la legittimità della pensione di anzianità.

1992 – 1994 – Il Governo Amato eleva, a regime, la pensione di vecchiaia a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne, mentre per quella di anzianità istituisce un blocco per tutto il 1993. Successivamente, il Governo Ciampi introduce una penalizzazione economica nel pubblico impiego. In seguito, il Governo Berlusconi accelera l’andata a regime del pensionamento di vecchiaia (che termina nel 2000) e stabilisce un altro blocco per quello di anzianità.

1995 – Con la legge 335 (riforma Dini) viene riesaminata la disciplina del pensionamento di anzianità. A regime, nel 2008, si accede al trattamento pensionistico a 57 anni di età con 35 di contributi o a qualunque età con 40 anni di versamenti.

1997 – La legge 449 (riforma Prodi) rende un po’ più veloce la transazione del pensionamento di anzianità, salvo le deroghe per operai, equivalenti e precoci. Il pubblico impiego viene sostanzialmente parificato al lavoro privato.

2004 – La legge 243 (riforma Maroni) fissa il limite anagrafico minimo per il trattamento di anzianità a 60 anni a partire dal 2008 per arrivare, successivamente, a regime a 62 anni per i dipendenti e a 63 per gli autonomi.

Il quadro appena delineato costituisce lo sfondo nel quale collocare la materia della “previdenza complementare e integrativa”.

Secondo dati INPS, alla fine del 2008 l’età effettiva di pensionamento di uomini e donne risultava pressoché identica , tra i 60 e i 61 anni; mentre però i primi ci arrivano avendo versati in media 34/35 anni di contributi, le seconde non superano i 25/26 anni.

Secondo qualche osservatore la differenza attuale tra l’età di pensionamento maschile e quello femminile è interpretabile come una sorta di “compensazione a posteriori per opportunità negate a priori”.

Giova ripercorrere brevemente quali siano i requisiti di pensionamento delle donne, partendo dalla legislazione attualmente vigente. La premessa è che l’età di pensionamento varia in rapporto alla professione ed all’Ente di previdenza di riferimento (Inps, Inpdap, Casse di Previdenza, Enpals). Volendo però tracciare una regola media e individuando i requisiti del regime Inps: pensione di vecchiaia: per coloro che rientrano nell’applicazione dei metodi di calcolo retributivo e misto è necessario avere 60 anni di età e 20 di contributi (se la lavoratrice è invalida all’80% e per le lavoratrici non vedenti il requisito di età è di 55 anni)

pensione di anzianità: le lavoratrici dipendenti dal 1 gennaio 2008 possono accedere alla pensione con 35 anni di contributi e 58 anni di età; le lavoratrici autonome devono avere invece 59 anni di età e sempre 35 di contributi. Dal 1° luglio 2009 entrerà poi in vigore il cosiddetto “sistema delle quote”, in base al quale si consegue il diritto alla pensione al raggiungimento di una quota data dalla somma tra età anagrafica e contribuzione (almeno 35 anni di contributi). Le lavoratrici possono comunque continuare ad accedere al pensionamento di anzianità con 57 anni di età e 35 di contributi ma in questo caso si passa automaticamente dall’applicazione del metodo retributivo al contributivo (la pensione si riduce di circa il 20%).

Per le lavoratrici che rientrano nell’applicazione del metodo “contributivo” già in partenza vi è invece un solo tipo di pensione, senza distinzione tra vecchiaia e anzianità, per cui si richiedono invece 60 anni di età con almeno 5 anni di contribuzione (in precedenza uomini e donne potevano scegliere un’età compresa nel range 57-65 anni e ad ogni età corrispondeva un differente coefficiente di trasformazione, più bassi ad età più giovani, più elevati a salire); in alternativa sono richiesti almeno 35 anni di anzianità contributiva e l’età anagrafica prevista per la pensione di anzianità oppure almeno 40 anni di anzianità contributiva, a prescindere dall’età anagrafica.

Età di pensionamento previdenza integrativa: dal 1° gennaio 2007 si ha diritto alla pensione integrativa (fondi pensione negoziali, fondi pensione aperti, piani individuali di previdenza) dopo aver maturato i requisiti di acceso alla pensione obbligatoria (intendendosi per tale essenzialmente il pensionamento per vecchiaia), con almeno cinque anni di iscrizione alla previdenza complementare. L’ aderente può proseguire volontariamente la contribuzione (deducendo) con la facoltà di determinare autonomamente il momento di fruizione delle prestazioni pensionistiche. Gli orientamenti Covip dello scorso 14 novembre forniscono chiarimenti precisando che le condizioni sono rappresentate dal poter vantare almeno un anno di contribuzione e dall’aver raggiunto i requisiti anagrafici per il pensionamento. Nel caso poi di cessazione dell'attività lavorativa che comporti l'inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi, le prestazioni pensionistiche sono, su richiesta dell'aderente, consentite con un anticipo massimo di cinque anni rispetto ai requisiti per l'accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza.

Per i fondi pensione del pubblico impiego, non applicandosi ancora la nuova normativa, si distinguono ancora la pensione di vecchiaia e la pensione di anzianità. In particolare: prestazione pensionistica per vecchiaia che si consegue: al raggiungimento dell’etè pensionabile del regime obbligatorio; con un minimo di 5 anni di partecipazione al fondo. 
Prestazione pensionistica per anzianitè che si consegue: con la cessazione dell’attività lavorativa; con almeno 15 anni di partecipazione al fondo; con un’età anagrafica di non più di 10 anni inferiore a quella pensionabile prevista dal regime obbligatorio.

L’art. 30, Divieti di discriminazione nell´accesso alle prestazioni previdenziali, del D. Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), specificamente prevede inoltre che «le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare per la prosecuzione della prestazione di lavoro fino al raggiungimento degli stessi limiti di età previsti per gli uomini dalle disposizioni vigenti, di legge, regolamentari o contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia».

Per le donne lavoratrici, ritirarsi dal lavoro a 60 anni, costituisce l’esercizio di un diritto (soggettivo) e non una imposizione normativa. Si tratta semplicemente di una possibilità, di una facoltà, che, in quanto tale, risulta esercitabile o meno, sulla base di una libera scelta, dettata da necessità e condizioni personali, che solo la lavoratrice interessata è in grado di valutare. Ma v’è di più. Le donne lavoratrici possono permanere al lavoro oltre i 60 anni anche senza sottostare al modesto onere burocratico di effettuare un’opzione da notificare al datore pubblico o privato.

L’inesistenza di tale onere burocratico di comunicazione dell’opzione da parte della donna (re-introdotto dal legislatore nell’art. 30 d.lgs. n. 198/06 sopracitato) venne pacificamente asseverata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 498/88, investita espressamente di pronunciarsi sull’indebito onere di comunicazione – a pena di decadenza – per la fruizione del diritto alle garanzie di stabilità in ordine alla cessazione del rapporto fino alla stessa età dell’uomo, fissate all’epoca nell’art. 4 della l. n. 903/77 di parità uomo-donna.

La sentenza dichiarò l’onere di comunicazione dell’opzione addossato alla donna incostituzionale.
Così motivando: «L´art. 4 della legge n. 903 del 1977, ora censurato, attribuisce alla donna lavoratrice, nonostante che sia in possesso dei requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, la possibilità di continuare a prestare la sua opera negli stessi limiti di durata del rapporto di lavoro prevista per l´uomo lavoratore da disposizioni legislative regolamentari, contrattuali. Ma per la sola donna richiede un´opzione in tal senso e la sua comunicazione al datore di lavoro, da farsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione. E´ evidente che la lavoratrice, rispetto al lavoratore, ha avuto un trattamento diverso che non ha alcuna ragionevole giustificazione proprio per i principi affermati più volte da questa Corte sulla parità uomo-donna in materia di lavoro e, in particolare, per quelli posti a fondamento della sentenza n. 137 del 1986. Con la suddetta sentenza, dichiarandosi la illegittimità costituzionale dell´art. 11 della legge n. 604 del 1966, che prevedeva la possibilità di licenziamento ad nutum della donna al cinquantacinquesimo (ora sessantesimo, ndr) anno di età e non al sessantesimo (ora sessantacinquesimo, ndr), come per l´uomo, si è sancito il diritto della prima alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino alla stessa età prevista per l´uomo e le si è, correlativamente, assicurata la stabilità nel posto di lavoro fino a tale età.

Nella fattispecie, siccome la richiesta opzione discrimina la donna rispetto all´uomo per quanto riguarda l´età massima di durata del rapporto di lavoro stabilita da leggi, regolamenti e contratti, e, quindi, la protrazione del rapporto, sussiste la violazione dell´art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell´art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro, e va, quindi, dichiarata l´illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede l´opzione. Si ribadisce così che l´età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l´uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo (ora sessantesimo, ndr) anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione. La protrazione della durata del rapporto di lavoro, cioé dell´età lavorativa, consente anche alla donna lavoratrice di conseguire i relativi vantaggi, come, ad esempio, gli aumenti retributivi e i conseguenti aumenti di pensione».

Le sentenze della Corte Costituzionale nn. 137/86 e 498/88, seguite dall’ordinanza di rigetto n. 256/2002, avevano così introdotto nell’ordinamento la regola secondo cui l’età lavorativa della donna deve coincidere con quella dell’uomo, cosicché la prima fruisce del regime di stabilità del rapporto fino a quando ne fruisce il secondo, senza alcun onere di comunicazione burocratica dell’opzione. Dopo l’elevazione a 65 anni della massima età pensionabile, il principio paritario è stato riaffermato anche in sede di magistratura di legittimità, da Cass. sez. lav. 1.6. 2006 n. 13045 (est. Di Nubila), la cui massima recita:«Per quanto concerne le lavoratrici dipendenti, premesso che in base al combinato disposto delle disposizioni di legge che si sono succedute nel tempo deve distinguersi tra età pensionabile ed età massima lavorativa, entità non coincidenti in quanto nell’attuale ordinamento l’età massima lavorativa, più elevata, corrisponde all’età pensionabile stabilita per i lavoratori dell’altro sesso, la tutela obbligatoria, unitamente a quella reale (ricorrendo di questa le condizioni di legge) deve ritenersi estesa a tutte le lavoratrici che, pur avendo raggiunto l’età pensionabile, non hanno ancora conseguito l’età massima lavorativa, con la conseguenza che alle stesse compete il diritto di proseguire il rapporto di lavoro anche dopo il compimento dell’età pensionabile e fino al giorno del raggiungimento dell’età massima lavorativa, senza necessità di alcun onere di comunicazione, da parte loro, al datore di lavoro, e con l’ulteriore conseguenza che a quest’ultimo è fatto divieto di esercitare il recesso ad nutum nell’arco di tempo indicato».

Scelta volontaria in termini di stretto diritto, ma – secondo condivisibili opinioni – spesso imposta dalla situazione di fatto caratterizzata da una carenza di strutture di supporto da parte dello Stato tese ad alleviare i disagi dei servizi di cura nell’ambito della famiglia.

Il contenuto della materia, dunque, alla luce dell’evoluzione normativa impressa dalle leggi di riforma del 1993 e 1995 ruota intorno a due fulcri:

· il nesso funzionale con la previdenza obbligatoria che ne ha oggettivamente trasformato i caratteri, ponendo in discussione la sua connotazione privatistica;

· il principio di libertà e più precisamente di “una libertà di tipo funzionale, in quanto, appunto gli atti di estrinsecazione della stessa devono essere finalizzati al conseguimento dello specifico obiettivo della previdenza complementare”.

Il dato normativo, inoltre, è accompagnato da un’opera di interpretazione della Corte tesa a stabilizzarne l’interpretazione in tal senso. La collocazione della previdenza complementare nel sistema dell’art. 38, secondo comma, è stata più volte confermata dalla Corte costituzionale dopo la riforma del 1995.

Assolutamente netta in tal senso è la sent. n. 393/2000 in cui la Corte, dopo aver ricostruito il sistema normativo così come modificato per effetto delle riforme del 1993-1995, ed aver fatto cenno ad una “tendenza riformatrice” più volte evidenziata (sent.421/1995; 292/1997; 178/2000) afferma che “alla stregua dell’evidenziato quadro normativo non può essere posta in dubbio la scelta del legislatore, enunciata sin dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421, e, confermata nei successivi interventi, di istituire (così come, del resto, non sfugge allo stesso rimettente) un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare, collocando quest’ultima nel sistema dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione.”

Il riferimento che la Corte opera ad un modello interpretativo che lega il secondo comma dell’art. 38 (comprensivo della  previdenza complementare) al principio di solidarietà (per cui vi sarebbe un "dovere specifico di cura dell’interesse pubblico a integrare le prestazioni previdenziali, altrimenti inadeguate, spettanti ai soggetti economicamente più deboli") mette in discussione la stessa configurazione della previdenza complementare come strumento che, secondo la dizione della legge, assicura più elevati livelli di copertura. La previdenza complementare, infatti, pare concorrere (più che aggiungersi) con quella obbligatoria per assicurare livelli adeguati di pensione.

Da questo punto di vista la distinzione tra previdenza obbligatoria come necessaria e previdenza complementare come eventuale è in parte superata nella parte in cui quella complementare concorre al mantenimento della prestazione adeguata poiché per quella parte anch’essa si fonda, come la previdenza obbligatoria, sulla situazione giuridica soggettiva e non sul rapporto giuridico.
A questo punto vi è da chiedersi se i livelli essenziali coincidano o meno con la previdenza di base.
In teoria la risposta potrebbe essere positiva ma il vero problema non è teorico ma pratico e di effettività della tutela: per cui il confine è mobile ed è evidente che se si diminuiscono le garanzie della previdenza sociale inevitabilmente quella complementare entra a definire i livelli essenziali.

Dall’inizio degli anni Novanta il sistema pensionistico italiano è stato oggetto di un articolato processo di riforma volto a contenere la spesa pensionistica in modo da garantirne la sostenibilità finanziaria.
Tale riforma rappresenta un’importante evoluzione nella storia della previdenza italiana. Essa è infatti incentrata sullo sviluppo di un sistema pensionistico basato su due “pilastri”.
E’ noto, le prestazioni pensionistiche che saranno pagate in particolare ai lavoratori entrati nel mondo del lavoro dopo il 1° gennaio 1996 o con pochi anni di servizio a quella data, saranno inferiori di quelle pagate nel passato.

All’uopo, deve darsi atto della evoluzione giurisprudenziale della Corte Costituzionale in relazione alle connessioni tra andamento dell’economia e previdenza sociale, laddove, abbandonata l’impostazione risalente che assumeva a presupposto l’equiparazione dei trattamenti previdenziali alla retribuzione (dando applicazione al principio di proporzionalità e sufficienza enunciato dal primo comma dell’art. 36 Cost.), il giudice delle leggi ha avvertito e condiviso l’azione legislativa per il superamento della crisi finanziaria delle gestioni previdenziali e gli interventi finalizzati alla razionalizzazione del sistema, sino a riconoscere come legittima la riduzione dell’effettività della tutela laddove necessitata da « inderogabili esigenze » di bilancio.

Conferme, in proposito, si hanno proprio da quella svolta nella giurisprudenza della Corte indotta dalla crisi finanziaria del sistema pensionistico, laddove i giudici, chiamati a valutare la legittimità costituzionale degli interventi di razionalizzazione succedutisi nel periodo 1992-2004, hanno condiviso le preoccupazioni del legislatore e le profonde modifiche che lo stesso aveva apportato all’assetto del nostro sistema previdenziale e, in particolare, di quello pensionistico. Così la Corte costituzionale ha escluso l’illegittimità di leggi che operavano una riduzione delle prestazioni pensionistiche quando questa poteva essere giustificata dalla « necessità economica-sociale di evitare in un momento di grave crisi economica notevoli disparità tra le categorie dei pensionati » e da « superiori esigenze di politica sociale »; ovvero dall’esigenza di « copertura del bilancio statale » sul quale era stato fatto « ricadere l’onere di integrare e ripianare il deficit degli enti previdenziali »; o ancora dall’ « inderogabile esigenza di assicurare un equilibrato andamento del bilancio » per evitare l’« insorgenza di notevoli difficoltà finanziarie ( . . . ), che avrebbero potuto riflettersi sulla capacità stessa di effettuare in futuro le prestazioni pensionistiche a tutti gli aventi diritto ». È un mutamento di prospettiva rispetto alla prima giurisprudenza costituzionale che equiparava la pensione alla retribuzione; la Corte si fa carico di governare il processo di modifica della comune ideologia normativa di cui quella prima giurisprudenza era espressione, assumendo a riferimento l’art. 38 Cost. e la garanzia dei « mezzi adeguati alle esigenze di vita », nonché conseguentemente il perseguimento dell’interesse generale che è anzitutto quello di « dare sicurezza ai pensionati attuali e futuri sulla tenuta finanziaria del sistema stesso ».

Pertanto, l’adesione alla previdenza complementare, pur non essendo obbligatoria, è quindi un‘interessante opportunità per garantire ai pensionati di domani un reddito di importo adeguato.
Una delle novità più importanti della Riforma riguarda il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) che può essere utilizzato come fonte di finanziamento delle forme pensionistiche complementari.
Sono interessati alla riforma della previdenza complementare attuata con il d. lgs. n.252/2005 ed entrata in vigore dal 1° gennaio 2007 tutti i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti, ad esclusione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sotto elencate. In base alla disciplina del d. lgs. n. 252/2005 o del d. lgs. n.124/1993, possono aderire alle forme pensionistiche complementari le seguenti tipologie di lavoratori:

1. i lavoratori dipendenti sia del settore privato che del settore pubblico;

2. i lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali previste dal d. lgs. n.276/03 (legge   Biagi): soggetti con contratto di lavoro in somministrazione, con contratto di lavoro intermittente, con contratto di lavoro ripartito, con contratto di lavoro a tempo parziale, con contratto di apprendistato, con contratto di inserimento, con contratto di lavoro a progetto, con contratto di lavoro occasionale;

3. i lavoratori autonomi;

4. i liberi professionisti;

5. i soci lavoratori di cooperative;

6. i soggetti che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari nonché i soggetti che svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta. Naturalmente, la specifica disciplina sul conferimento del Trattamento di fine rapporto (TFR) alle forme pensionistiche complementari trova applicazione solo con riferimento ai lavoratori dipendenti. Alle forme pensionistiche complementari di carattere individuale (fondi aperti e PIP) possono aderire anche soggetti diversi da quelli sopra elencati, come ad esempio i soggetti che non hanno reddito da lavoro.

Possono inoltre iscriversi alle forme pensionistiche complementari anche i c.d. "soggetti fiscalmente a carico" cioè quei soggetti rispetto ai quali il percettore del reddito fruisce delle deduzioni o delle detrazioni prevista dalla normativa fiscale vigente. Tutto ciò premesso, l’evoluzione della previdenza sociale entra necessariamente in contatto ed attraversa la elaborazione dei principi antidiscriminatori predisposti dall’ordinamento in favore delle donne lavoratrici, notoriamente più penalizzate in ambito lavorativo. Il concetto di pari opportunità nel lavoro, inteso come dimensione infungibile della piena ed attiva partecipazione delle donne alla vita economica e sociale del Paese, è stato interessato dal passaggio da forme di tutela formale ed astratta – caratterizzanti la prima fase dell’affermazione dell’identità e dei diritti di genere nel primo Novecento – a forme di tutela specificatamente mirate alla concreta rimozione delle disuguaglianze di fatto.

Storicamente, il compiersi di tale passaggio può essere collocato negli anni settanta allorquando il tessuto normativo – sino ad allora costituito da provvedimenti di carattere prevalentemente e meramente protettivo – si arricchisce di importanti leggi di riforma che iniziano a considerare le problematiche sociali della condizione lavorativa femminile nella loro dimensione concreta e nella loro specifica complessità. 
Ci si riferisce, in primo luogo, alle leggi nn. 1204 e 1044 del 1971, rispettivamente in materia di asili nido e tutela delle lavoratrici madri. Ad esse seguirà la legge n. 903/1977, “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, tesa ad assicurare la pari dignità delle lavoratrici e la parità di trattamento economico e normativo rispetto ai lavoratori di sesso maschile, da ottenersi anche attraverso un riequilibrio dei ruoli all’interno della famiglia e all’incentivazione finanziaria del lavoro femminile.

Nello stesso periodo si inseriscono gli interventi delle istituzioni comunitarie finalizzati alla realizzazione del principio di uguaglianza tra uomini e donne nel lavoro, già implicitamente previsto nel Trattato di Roma. Si tratta della direttiva 9 febbraio 1976, n. 207 in materia di parità di accesso al lavoro, alla formazione e alle promozioni professionali da realizzarsi mediante l’eliminazione delle discriminazioni fondate, direttamente o indirettamente, sul sesso, della direttiva 19 dicembre 1978, n. 7 relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale e della direttiva del Consiglio 11 dicembre 1986, n. 613 che, da un lato, estendeva le forme di tutela già previste per le lavoratrici subordinate a quelle che esercitavano attività autonoma o di lavoro agricolo, dall’altro, prevedeva specifiche misure in tema di tutela della maternità.

Attualmente, l’intera normativa in materia di misure a sostegno della maternità e della paternità, oggetto di un’operazione di complessiva sistematizzazione e di riordino, è contenuta nel D. lgs n. 151/2001, emanato dal Governo a seguito della delega contenuta nell’art. 15 della legge n. 53/2000.
L’art. 2 del Trattato UE – nella formulazione conseguente al Trattato di Amsterdam – prevede che l’azione della Comunità deve essere rivolta anche al perseguimento della parità tra uomini e donne. Al Consiglio è stata attribuita la competenza ad adottare, in base alla procedura di co-decisione, e previa consultazione del Comitato economico e sociale, le misure necessarie ad assicurare il principio della pari opportunità di trattamento tra uomini e donne.

Tali misure, qualificate come “azioni positive”, ex art. 141 del Trattato, sul versante degli Stati membri consistono nel mantenimento o nella nuova previsione di vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato, allo scopo di garantire un’effettiva e completa parità di trattamento tra uomini e donne.

La parità tra uomini e donne è l’obiettivo degli interventi previsti dal Programma concernente la strategia comunitaria in materia di parità tra donne e uomini, approvato dal Consiglio dell’Unione con decisione n. 2000/51/CE del 20 dicembre 2000.

Da ciò emerge che la produzione normativa – una volta tracciate le coordinate fondamentali della politica antidiscriminatoria – sia ormai decisamente influenzata dalla consapevolezza dell'insufficienza del principio di parità formale. Tale consapevolezza ha determinato un'evoluzione graduale dei concetti di discriminazione e parità, e, quindi, l'elaborazione di un nuovo corpo di norme giuridiche e di nuove tecniche istituzionali di intervento. A livello nazionale, il mercato del lavoro costituisce il primo (e tuttora, principale) settore di intervento in materia di promozione di azioni positive. Se ne è occupata la legge n. 125/1991 (Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro) espressamente rivolta a “favorire l'occupazione femminile e realizzare, l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante l'adozione di misure idonee a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità” (art.1).

Le azioni positive hanno in particolare lo scopo di eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità, favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne, favorire l'accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici, superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione, nell'avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo, promuovere l'inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologica-mente avanzati ed ai livelli di responsabilità, favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l'equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.

Ai nostri fini, è opportuno anche dare indicazione del D. lgs. n. 196/2007, con il quale è stata data attuazione nel nostro ordinamento alla Direttiva 2004/113/CE, per la parità di trattamento tra uomini e donne nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura. In particolare, si evidenzia il nuovo art. 55-quater del predetto Codice, riguardante la parità di trattamento tra uomini e donne nei servizi assicurativi e altri servizi finanziari, che impone ai fornitori dei predetti servizi di prevedere premi e prestazioni unisex con riguardo a tutti i nuovi contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore del D. lgs. 196/2007. La norma citata afferma tuttavia la possibilità di prevedere differenze proporzionate nei premi e nelle prestazioni individuali allorché il fattore sesso risulti ancora determinante nella valutazione dei rischi, in base a pertinenti ed accurati dati attuariali e statistici.

La “fragilità” della condizione previdenziale delle donne è frutto in larga parte di una più tardiva ed a volte intermittente, e diversa partecipazione delle stesse ad un mercato del lavoro caratterizzato, ancor oggi, da marcate differenze e da una asimmetria di genere nella distribuzione del lavoro familiare e di cura dei figli e degli anziani. Nonostante si sia assistito negli ultimi anni ad una crescita dell’occupazione femminile, dovuta in larga misura alla diffusione del part-time, siamo ancora distanti dai tassi di occupazione femminile che si registrano in ambito europeo, e ancor più dal raggiungimento, entro il 2010, dell’obiettivo del 60% di partecipazione femminile al mercato del lavoro fissato dalla strategia di Lisbona.

Nonostante i risultati raggiunti per effetto dei diversi provvedimenti normativi succedutisi, sempre più orientati a promuovere le condizioni necessarie per una concreta e sostanziale realizzazione del principio delle pari opportunità, e volti a favorire una maggiore crescita della presenza femminile nel mercato del lavoro, non si può non rilevare che permangono ancora gravi debolezze strutturali nel mercato del lavoro, quali, ad esempio, barriere all’accesso al lavoro determinate in gran parte dai carichi familiari, diversità nei percorsi di sviluppo professionale che caratterizzano il lavoro femminile, e scarsa presenza femminile nelle posizioni più elevate.

Negli ultimi anni l’evoluzione del mercato del lavoro e l’espansione del ricorso a tipologie di lavoro flessibile, se da un lato, offrono ai lavoratori e alle lavoratrici ulteriori possibilità di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro (part-time e contratti “ad orario modulato”), dall’altro ha posto (e pone) l’esigenza di garantire livelli di tutela uniformi per le lavoratrici.

Le pensionate di domani raccoglieranno anche i frutti di un mercato del lavoro post-fordista, in uno scenario globalizzato che sul terreno della continuità e della tutela dei diritti appare oggi più fragile e più discontinuo, più precario rispetto al passato.

La condizione previdenziale delle donne è rivelatrice di percorsi di vita personali e familiari che, generalmente, vedono un loro più tardivo ingresso nel mercato del lavoro legale o una presenza più intermittente, una difficile conciliazione del mantenimento del lavoro con la maternità e la cura dei figli, anche per un sistema di welfare locale ancora insufficiente e rigido, per inadeguate opportunità di “rientro” nel mercato del lavoro dopo questa fase; carriere più “lente” e meno accessibili, anche in relazione alla minore disponibilità di tempo; gap tra titoli di studio e ruoli effettivi; differenziali retributivi con uomini a parità di ruolo.

E’ noto che l’Italia presenta un quadro demografico e produttivo particolarmente problematico, con diffusa disoccupazione, specie nel Sud. 
Le riforme previdenziali susseguitesi nel tempo (503/92; 537/93; 724/94; 335/95; 449/97) hanno avuto una incidenza specifica sulla condizione delle donne. Il Consiglio Europeo di Lisbona, nel 2000, ha stabilito un obiettivo di almeno il 60% di donne occupate in Europa entro il 2010. 
Ma solo alcuni Paesi europei, come ad esempio i Paesi scandinavi e il Regno Unito, hanno già raggiunto questo obiettivo. 
L’Italia invece è uno dei Paesi europei con la più bassa occupazione femminile - con un tasso del 43% circa - e detiene il terzo posto in Europa nella classifica della disoccupazione femminile.

Le debolezze croniche del lavoro femminile determinano una condizione critica delle donne nel mondo della previdenza. Bisogna tenerne conto, mettendo in campo strumenti che riducano le disparità tra i sessi, in particolare il profondo gap tra uomini e donne relativo all’importo delle pensioni. In merito alla rendita vitalizia integrativa della pensione delle donne lavoratrici, l’esistenza di tabelle differenziate per uomini e donne, dovuta al fatto che le donne statisticamente vivono più degli uomini implica, una penalizzazione in termini percentuali di circa il 25-30% in meno su una mensilità rispetto agli uomini. Ciò in palese contrasto non solo con la logica mutualistica alla base di ogni sistema previdenziale, ma anche e soprattutto al principio di uguaglianza tra uomini e donne.

In questo contesto, rinsalda la più recente propensione all’elevazione dell’età pensionabile della donna, la sentenza della Corte di Giustizia europea, resa il 13 novembre 2008 (causa C-46/07). La sentenza scaturisce da un ricorso proposto dalla Commissione delle Comunità Europee nei confronti dello Stato italiano, teso ad ottenere dalla Corte medesima la dichiarazione del mancato adempimento dell’Italia rispetto agli obblighi previsti dall’art. 141 del trattato istitutivo della C.E. - che vieta qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, qualunque sia il meccanismo generatore dell’ineguaglianza – per avere consentito il nostro Paese la vigenza di una normativa riconoscente il diritto dei pubblici dipendenti al trattamento pensionistico di vecchiaia, con differenziazione dell’età pensionabile a seconda del sesso. La Corte ha rigettato l’argomentazione del Governo italiano secondo cui la concessione di un pensionamento anticipato ai 60 anni per la donna costitusce una misura compensativa delle eventuali presunte discriminazioni in corso di rapporto.

A tale scopo argomentando che: «Anche se l’art. 141, n. 4, CE autorizza gli Stati membri a mantenere o a adottare misure che prevedano vantaggi specifici, diretti a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali, al fine di assicurare una piena uguaglianza tra uomini e donne nella vita professionale, non se ne può dedurre che questa disposizione consente la fissazione di una tale condizione di età diversa a seconda del sesso. Infatti, i provvedimenti nazionali contemplati da tale disposizione debbono, in ogni caso, contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo. (…) Ora, la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale».

Il pensiero dell’Alta corte di giustizia europea suona quindi come sollecitazione a porre in atto – da parte del legislatore italiano – effettive misure riequilibratrici degli svantaggi e dei disagi per la donna lavoratrice, non riconoscendo emblematicamente al cd. “sconto” d’età pensionabile carattere in alcun modo compensativo per la donna lavoratrice.

Più di recente, si discute a livello politico della iniziativa di legge che prevede l’elevazione graduale, nel regime contributivo a partire dal 2014 (allorquando dovrebbe essere entrato a regime in modo parziale o totale il sistema pensionistico contributivo), a sessantadue anni dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti, autonome e libere professioniste appartenenti a tutti i regimi, in ragione di un anno ogni due, a decorrere dal 1° gennaio 2010. Al tempo stesso si propone, con gradualità, di istituire per i lavoratori e le lavoratrici cui si applica il sistema contributivo, un pensionamento unificato di vecchiaia che - fermo restando il diritto al pensionamento con 40 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica - promuova l’allungamento della vita lavorativa e garantisca una flessibilità di opzioni per il requisito anagrafico di quiescenza, compreso tra un minimo di 62 ed un massimo di 67 anni.

Il disegno di legge n. 1299 prevede che il Governo è delegato ad adottare, uno o più decreti legislativi contenenti norme intese a completare il riordino del sistema previdenziale, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) elevazione graduale, nel regime contributivo, a sessantadue anni dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti, autonome e libere professioniste appartenenti a tutti i regimi in ragione di un anno ogni due anni a decorrere dal 1o gennaio 2010; sono fatte comunque salve le normative vigenti che prevedono requisiti anagrafici più elevati. Con la medesima decorrenza e con riferimento alle lavoratrici di cui alla presente lettera, non si applica quanto previsto dall’articolo 1, comma 5, lettere b) e c), della legge 24 dicembre 2007, n. 247; b) istituzione, con decorrenza dal 1° gennaio 2014 per i lavoratori e le lavoratrici cui si applica il sistema contributivo, di un pensionamento unificato di vecchiaia che, fermo restando il diritto al pensionamento con quaranta anni di contribuzione a prescindere dall’età anagrafica, promuova l’allungamento della vita lavorativa e garantisca una flessibilità di opzioni per il requisito anagrafico di quiescenza, compreso tra un minimo di sessantadue e un massimo di  sessantasette anni; c) applicazione ai lavoratori e alle lavoratrici di cui alla  lettera b) del presente comma dei coefficienti di trasformazione previsti dai commi 12 e 14 dell’articolo 1 della legge 24 dicembre 2007,n. 247, ricalcolati sulla base dei requisiti anagrafici di cui alla stessa lettera b), da sottoporre a revisione automatica triennale ai sensi dell’articolo 1, comma 11, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni (…)

e) riconoscimento di agevolazioni alle lavoratrici madri, anche stabilendo che i periodi di astensione dal lavoro per maternità e puerperio valgano il doppio fino a un massimo di anni due. (…).

a) realizzare un’effettiva parità di condizioni tra le diverse forme di  previdenza complementare anche mediante la continuità della corresponsione del previsto contributo del datore di lavoro nel caso di trasferimento della posizione individuale del lavoratore.