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La "grande guerra" - Capitolo XXVIII

La guerra divampò in Europa nell'agosto 1914, ma l'Italia ne rimase fuori per quasi un anno. In quel periodo le donne fecero sentire la loro voce, gridando "pane e pace" nelle strade e nelle piazze, partecipando a manifestazioni e cortei anti-interventisti. Era ancora troppo fresco il ricordo della guerra di Libia, nel 1911, perché esse non sapessero cosa volesse dire quella follia micidiale che strappava loro mariti e figli. Alla loro azione si affiancava quella dei sindacati, che organizzavano grandi scioperi contro il rincaro dei prezzi e la scarsità dei generi alimentari.

E le lavoratrici naturalmente vi aderivano, poiché vivevano giorno per giorno sulla loro pelle tutti i disagi all'interno della famiglia e sul posto di lavoro.
Alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia, nell'aprile 1915, apparve sull'Avanti! l'appello del Comitato internazionale delle donne socialiste, rivolto alle "proletarie" di tutti i paesi. "Qual è lo scopo di questa guerra? Si dice che si tratta del benessere della patria, della sua difesa. Ma per benessere della patria, non dovrebbe intendersi quello di milioni di cittadini che la guerra riduce cadaveri, mutilati, invalidi, disoccupati, mendicanti, vedove ed orfani?... Basta con l'assassinio! Questo grido s'innalza in tutte le lingue e trova eco nelle trincee..."
Le autrici dell'appello furono però accusate di "disfattismo", come tutti i socialisti, e nell'italia di allora prevalse la voce degli "interventisti", trascinando il paese nell'immane massacro.
A quel punto le autorità si ricordarono che esistevano le donne. Mentre gli uomini venivano richiamati alle armi, esse dovettero sostituirli nell'industria e nell'agricoltura. Una circolare ministeriale emanata nell'ottobre del 1916 stabiliva che entro il 31 dicembre dello stesso anno, la manodopera femminile fosse utilizzata nell'industria bellica in misura dell'80 per cento.
Le donne lavoravano soprattutto nel settore tessile e in quello alimentare, per la produzione di divise militari e di "scatolame", ossia cibo in scatola da mandare al fronte. Ma erano presenti in larga misura anche nei pubblici impieghi e nei campi, dove le nostre contadine affrontarono senza battere ciglio le attività più faticose, e tradizionalmente riservate agli uomini, come arare la terra e mietere il grano.
Tuttavia, a parità di lavoro non corrispondeva parità di salario: operaie e impiegate ricevevano una paga inferiore a quella degli uomini che avevano dovuto sostituire, o di quei pochi che erano rimasti, guadagnandosi il titolo di "imboscati". Di questa situazione si fece portavoce un convegno femminista, tenutosi a Roma nel 1916, chiedendo che fosse riconosciuta l'uguaglianza dei diritti, dato che si esigeva un'uguaglianza di doveri. Inoltre si prospettò la necessità di garantire la continuità del lavoro anche al termine del conflitto: già si prevedeva infatti, nonostante la pace fosse ancora lontana, che al momento della smobilitazione le donne sarebbero state licenziate per fare posto ai reduci. Come si verifica puntualmente non soltanto in occasione delle varie guerre, ma anche delle crisi economiche, esse in realtà vengono considerate un "esercito di riserva", da richiamare quando ce n'è bisogno e da congedare quando non servono più.
Nello stesso convegno femminista si chiese anche che fosse riconosciuta alla donna la possibilità di accedere a tutte le arti e professioni, visto che non le erano risparmiate né le mansioni più pesanti né quelle più pericolose. Infine si stabilì che non appena il conflitto mondiale fosse terminato, si sarebbe posta di nuovo sul tappeto la questione del voto.


La guerra, come tutti sanno, ebbe termine il 4 novembre del 1918, e nonostante le enormi difficoltà da essa provocate, l'anno successivo vennero discusse in Parlamento varie proposte per il suffragio femminile. La più importante era quella presentata dai tre deputati Martini-Gasparotto Micheli, che pur essendo di diverse tendenze politiche, riconoscevano che la donna si era "guadagnata" il diritto di voto.
Fra le voci discordi, si levò quella di un certo on. Monti Guàrnieri, che rispolverò per l'occasione il vecchio detto latino domi mansit, lanam fecit: ossia, tradotto liberamente, la donna doveva starsene a casa a fare la calza. Un altro deputato, invece, sostenne che c'era ancora nel gentil sesso troppo analfabetismo. Al che l'on. Gasparotto rispose, citando le statistiche, che gli analfabeti erano il 36,2 per cento fra le donne e il 34,5 per cento fra gli uomini, quindi non si poteva invocare una così piccola differenza per negare ad esse il voto, tanto più che nell'anno in cui era stato concesso agli analfabeti di sesso maschile, questi erano circa il 42 per cento.
Alla fine, il progetto di legge fu approvato alla Camera dei deputati con 174 sì contro 55 no. Era il l9-9-l919, e secondo alcuni il nove è un numero perfetto, come non si mancò di notare. Le femministe trassero un gran sospiro di sollievo, quasi non riuscendo a credere a quella prima vittoria. Mancava però l'approvazione del Senato, e proprio quando stava per iniziare la discussione dei vari articoli, "l'impresa" di D'Annunzio a Fiume provocò lo scioglimento delle Camere. Il progetto legislativo, rimasto a metà strada fra Montecitorio e Palazzo Madama, fu considerato decaduto.
L'anno successivo la questione fu riproposta, ma solo riguardo al voto amministrativo. Inutilmente l'Alleanza pro suffragio osservò, protestando, che era assurdo fare un passo indietro rispetto al progetto già approvato. Il nuovo disegno di legge passò anche questa volta con una larga maggioranza alla Camera, ma il Senato non fece in tempo ad approvarlo prima della convocazione dei comizi elettorali. Era evidente che mancava la volontà politica per attuare questa riforma, come sostenne il Comitato pro suffragio di Torino, che organizzò una grande manifestazione alla vigilia delle elezioni. Parlò la Presidente, anche a nome di altre quattordici associazioni femminili: "La legge non è stata votata" disse "per paura dell'incognita che l'ingresso della donna nella vita politica rappresenta per tutti i partiti. Le donne clericali o socialiste fanno paura ai liberali, le donne socialiste o liberali fanno paura ai clericali, le donne liberali o clericali fanno paura ai socialisti... Nella comune mentalità dei dirigenti politici, il suffragio femminile deve essere un servizio calcolato e ben sicuro ".
Intanto, mentre calcoli meschini tenevano lontane le donne dalla vita politica, s'avanzava sull'Italia lo spettro del fascismo. Già nel '19 erano stati fondati i "fasci di combattimento", che approfittando del reale disagio economico e sociale in cui il nostro paese era stato gettato dalla guerra, volevano riportare "l'ordine" con la violenza. E vedremo come quest'ordine fu portato anche nella questione femminile.
Pochi mesi prima della "marcia su Roma", un deputato socialista, l'on. Modigliani, presentò un nuovo progetto di legge, che forse fu il più breve e laconico di quanti siano mai arrivati a Montecitorio. Nell'unico articolo di cui si componeva, esso diceva: "Le leggi vigenti sull'elettorato politico e amministrativo sono estese alle donne". Nonostante la sua laconicità, se fosse stato approvato avrebbe concesso di colpo tutti i diritti riguardanti il voto. Invece non fu neanche discusso.

L'avventurosa storia del femminismo di Gabriella Parca
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. - Milano - Prima edizione Collana Aperta maggio 1976
Seconda Edizione Oscar Mondadori marzo 1981
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